Meditazione quaresimale su Gv 11,1-45

La risurrezione di Lazzaro

Cardinale Giuseppe Betori, Arcivescovo Metropolita di Firenze

La successione dei testi evangelici proposti dalla liturgia nelle domeniche di Quaresima nell’anno A, va compresa di una prospettiva battesimale che ne diventa anche la chiave di lettura. Proviamo a indicarne gli snodi essenziali per collocare, nel loro sviluppo, il racconto della risurrezione di Lazzaro, il vangelo che viene proclamato in questa V domenica.

Il primo passo è stato segnato dal vangelo delle tentazioni di Gesù (Mt 4,1-11), con cui ci è stato indicato come il cammino della conversione, a cui la Quaresima esorta, deve partire dalla consapevolezza che la vita dell’uomo è posta sotto il segno della lotta contro il male. Un confronto rigoroso, ma che va affrontato con fiducia, in quanto nella parola di Dio ci è data la risorsa che permette di vincere la contesa con Satana.

Il passo successivo, che abbiamo compiuto nella II domenica, ci ha portato a comprendere come la conversione deve sì prendere realisticamente in conto la fragilità della condizione umana, ma non si risolve semplicemente in un rifiuto del male, bensì, nella sua pienezza, nell’incontro con il mistero del Figlio di Dio. Nella sua trasfigurazione egli colloca la sua presenza tra gli uomini nell’orizzonte della sua identità divina, facendo di essa il punto prospettico con cui interpretare l’umiliazione della Croce (Mt 17,1-9).

Che cosa derivi dall’incontro con il mistero di Cristo ci è stato mostrato nelle due successive domeniche rispettivamente dal vangelo della samaritana (Gv 4,5-42) e da quello del cieco nato (Gv 9,1-41). La condizione dell’uomo è segnata dal desiderio, dall’attesa, dall’aspirazione a una pienezza di vita mai compiutamente raggiunta. Ne è simbolo la sete della donna al pozzo di Giacobbe, con la sua vita mai compiuta e con il desiderio di poter mettere fine alla sua ricerca di acqua. La risposta al desiderio è Gesù stesso, l’acqua che disseta ogni nostra aspirazione e, ancor più, diventa in noi «sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14), così da diventare noi stessi dono di vita per gli altri. L’incontro con Gesù non solo è fonte che disseta la nostra sete di vita, ma è anche luce che ci permette di illuminare noi stessi e il mondo intorno a noi, uscendo dalle tenebre dell’incomprensione e dell’errore. «Sono la luce del mondo» (Gv 9,5), proclama Gesù, e con la sua presenza di verità fa giustizia di pregiudizi, esclusioni, manipolazioni umane, per ridare alla nostra umanità la sua piena dignità, ci dà soprattutto la gioia dell’incontro con lui e la possibilità di seguirlo.

E siamo così giunti alla nostra domenica, in cui ci viene proposto il vangelo della risurrezione di Lazzaro, rivelazione del potere del Figlio di Dio sulla morte e rivelazione pertanto che nel battesimo non solo si adempie il desiderio umano, non solo è donato al credente uno sguardo nuovo, quello della fede, per vedere il mondo nella sua verità, ma la vita stessa dell’uomo viene ricreata e fatta nuova. Il battesimo ci rigenera e fa di noi figli di Dio.

Questo l’itinerario liturgico, ma ora proviamo a riprendere in mano quest’ultimo vangelo, che, nella lettura liturgica, si estende per larga parte del capitolo 11 del vangelo secondo Giovanni (Gv 11,1-45), molto a lungo quindi, ma, come vedremo, non abbastanza per far cogliere in pienezza il messaggio che l’evangelista vuole comunicarci. Ma andiamo per ordine.

Il racconto che abbiamo ascoltato inizia con alcune frasi che ci fanno entrare, per così dire, nella vita privata di Gesù, nei suoi sentimenti. Gesù aveva degli amici e questi non erano nella cerchia ristretta dei Dodici o nel gruppo appena più ampio che lo seguiva, tra cui un ruolo significativo avevano alcune donne, come riferisce l’evangelista Luca (cfr. Lc 8,2-3), ma erano i componenti di una famiglia di Betania, nella cui casa Gesù probabilmente alloggiava quando andava a Gerusalemme, due sorelle e un fratello: Marta, Maria e Lazzaro. Che li legasse a Gesù un vincolo di amicizia lo dice il vangelo nelle parole messe in bocca alle sorelle nel messaggio che inviano a Gesù per informarlo della malattia di Lazzaro: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato» (Gv 11,3). L’espressione che la nostra traduzione rende con “colui che tu ami” ha dietro di sé un verbo greco che non è agapáō ma philéō, il verbo che esprime l’affetto dell’amicizia. Si sarebbe potuto tradurre anche: “Signore, ecco, il tuo amico è malato”. Tutto inizia dunque come un dramma familiare, una nube che viene a offuscare la serenità di affetti consolidati. Il grande e prodigioso segno che in seguito avverrà, il culmine dei segni compiuti da Gesù, che erano cominciati a Cana di Galilea (cfr. Gv 2,1-11), si innesta in un contesto di umana quotidianità, la malattia di un amico; una sofferenza che più volte ci ha toccati tutti da vicino. Nella quotidianità delle nostre relazioni e delle nostre condizioni di vita, nelle vicende gioiose e tristi dei nostri giorni, si manifesta la presenza di Dio e della sua grazia.

La reazione di Gesù di fronte all’annuncio della malattia di Lazzaro è stupefacente. Ci si aspetterebbe che egli si precipiti accanto agli amici e, invece, egli indugia per ben due giorni prima di muoversi. Sconcertano, a prima vista, anche le parole che egli pronuncia: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (Gv 11,4). Egli che è la luce, come afferma in seguito, non capisce che la malattia di Lazzaro porterà alla morte dell’amico? Ma Gesù vuole dirci altro, e cioè che nella sofferenza di Lazzaro, che comporta pure la sua morte, si dovrà compiere un mistero in cui si rivelerà il dominio di Gesù sulla morte, il suo potere di vincere la morte e dare la vita. Sarà la rivelazione su Gesù e quindi la fede in lui a portare a Lazzaro la salvezza e la vita.

Che questo sia possibile è spiegato dalla frase che segue immediatamente le parole di Gesù: «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,5). Questa volta la traduzione è precisa, perché il verbo greco che sta dietro alla parola “amava” è proprio il verbo agapáō, il verbo che indica l’amore che ha la sua sorgente in Dio. Qui si va oltre l’amicizia: quel che Gesù si appresta a fare è espressione di come egli si pone verso tutti, anche verso di noi, che quindi possiamo aspettarci che Gesù vinca la morte anche per noi.

Questo amore spinge Gesù a mettere in pericolo sé stesso, a recarsi dove è certo che subirà ostilità, là dove avevano già cercato di lapidarlo. Sono passati due giorni, il tempo perché la malattia evolva nella morte, e Gesù dice: «Andiamo di nuovo in Giudea!» (Gv 11,6). Per un poco il racconto perde di vista Lazzaro e mette in evidenza che la decisione di Gesù possa portare alla sua morte. Certamente egli è cosciente che va a collocarsi in un ambiente che gli è ostile, come lo sono le tenebre, ma Gesù esorta i discepoli a riconoscere in lui la luce in grado di vincere ogni tenebra, e questo può accadere purché la presenza di Gesù prenda posto nel loro cuore. Al contrario di chi camminando nella notte inciampa «perché la luce non è in lui» (Gv 11,10), occorre che lui, la luce, sia in noi.

A questo punto torna in gioco la situazione di Lazzaro. Dice Gesù: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). Ne nasce un’incomprensione da parte dei discepoli che non capiscono che Gesù, con le parole “dormire” e “svegliare”, intende parlare di morte e risurrezione. Lo stesso era accaduto quando Gesù aveva risuscitato la figlia di Giàiro (cfr. Mc 5,38-42). Il potere di Dio di far rinascere dalla morte rende la morte una condizione provvisoria agli occhi di Gesù, nulla più di un sonno.

Infine Gesù svela qual è lo scopo di quanto sta accadendo: la fede dei discepoli. Questo era accaduto all’apertura del libro dei segni, a Cana di Galilea, dove l’acqua era stata mutata in vino perché i discepoli credessero (cfr. Gv 2,11). Lo stesso accade in quest’ultimo segno prima della Passione: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate» (Gv 11,14-15). Il segno che Gesù compirà dovrà suscitare nei discepoli la fede in lui come sorgente di vita. I segni ci sono dati non come rimedi alle fragilità della condizione umana, che fragile sempre resterà finché è nel tempo – un giorno anche la vita temporale di Lazzaro avrà un termine –, ma come rivelazioni che aprono alla fede.

         La scena successiva vede il colloquio tra Gesù e Marta, la sorella di Lazzaro. È un colloquio nella fede, ma di una fede che Gesù deve purificare e completare. Marta, infatti, si pone di fronte a Gesù pronta a riconoscere in lui un intermediario potente di fronte a Dio, da cui si può attendere qualche gesto che venga a lenire il dolore degli umani. Marta non sa in che modo questo potrà accadere, dal momento che la morte è già intervenuta a stroncare la vita del fratello, ma può dire a Gesù: «So che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà» (Gv 11,22). Che cosa ci si possa attendere non è chiaro, ma a Gesù, alla sua amicizia, ci si affida. La risposta di Gesù va ben oltre le attese della donna: «Tuo fratello risorgerà» (Gv 11,23).

Marta tenta di ricondurre questa parola di Gesù dentro i termini della sua visione di fede, quella comune tra i farisei del tempo come anche tra la gente comune: la fede nella risurrezione dei morti alla fine dei tempi. La troviamo così codificata nella seconda delle Diciotto Benedizioni, la preghiera per eccellenza del giudaismo del I secolo: «Tu, o Signore, sei potente in eterno perché dai la vita ai morti». Gesù non nega questa fede, ma chiede che Marta riconosca in lui la sorgente stessa della vita e la garanzia della vita eterna per chi crede: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,25-26). Ad attirare la nostra attenzione sono anzitutto le prime parole, “Io sono”, cioè il nome con cui Dio si era rivelato a Mosè dal roveto ardente (cfr. Es 3,14). L’essere di Dio, di cui Gesù partecipa in quanto Figlio, viene poi specificato come forza di vittoria sulla morte, “risurrezione”, e come sorgente di “vita” eterna. Gesù ha il potere di dare la vita, e la vita che egli comunica vince ogni morte e proietta l’uomo nell’eternità. Per questo merita che crediamo in lui.

Gesù chiede a Marta di condividere  questa fede, e lei lo fa con i titoli con cui la Chiesa dei primi tempi esprimerà la sua fede in Gesù: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (Gv 11,27). Per suscitare questa fede Gesù si appresta a compiere il gesto che riporterà Lazzaro in vita. È la fede che al termine del vangelo viene riassunta dall’evangelista in una formula in cui i titoli cristologici sono illustrati proprio con il potere di Gesù di dare la vita: «Questi [segni] sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31). Credere in Gesù è credere nella vita.

         Il successivo incontro di Gesù, quello con Maria, l’altra sorella di Lazzaro, che gli va incontro con quanti erano andati a consolare le due donne in lutto, non aggiunge nulla dal punto di vista dell’annuncio della fede in Gesù. Apre invece un nuovo spiraglio nei sentimenti di Gesù. Sembra che egli si faccia partecipe del dolore di Maria e di quanti sono con lei: «Si commosse profondamente […], molto turbato» (Gv 11,33). Quel che viene reso in italiano come “commozione profonda”, più esattamente è “collera”, “indignazione”. Gesù non tollera le condizioni in cui il male prende il sopravvento sull’uomo, la morte in modo particolare; la sua è una forte reazione contro ciò che umilia l’uomo fino ad annientarlo. Colui che ha il potere della vita non può accettare il trionfo della morte; per questo, di lì a poco, agirà. Ma, insieme all’indignazione di fronte alla morte, atteggiamento che Gesù riproporrà al momento in cui raggiungerà il sepolcro (cfr. Gv 11,38), egli ci appare anche interiormente “turbato”, partecipe del dolore che lo circonda, al punto che subito dopo condividerà le lacrime di Maria e degli altri, vicino al cuore sofferente degli uomini e alla loro miseria: «Gesù scoppiò in pianto» (Gv 11,35). Altre lacrime Gesù versa nei racconti evangelici; le narra l’evangelista Luca e riguardano il futuro di Gerusalemme, la distruzione della città santa: «Alla vista della città pianse su di essa» (Lc 19,41).

         Gesù, dopo quattro giorni dalla morte dell’amico, finalmente giunge al sepolcro di Lazzaro, per compiere il miracolo che lo riporterà in vita. È ancora l’indignazione contro il male, contro il potere della morte, che muove Gesù verso il sepolcro, ma, una volta giunto là e aver ottenuto che venisse rimossa la pietra che lo chiudeva, le parole che egli rivolge al Padre ci offrono il significato del suo agire: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato» (Gv 11,41-42). Quella di Gesù non è una preghiera con cui rivolge una petizione al Padre perché lo esaudisca. Gesù è una cosa sola con il Padre, egli vive con lui un ascolto reciproco perché non ha altro desiderio che la volontà del Padre. Egli sa che il Padre vuole la vita degli uomini e il gesto che il Figlio sta per compiere su Lazzaro è un segno di questa volontà. Le sue parole non sono quindi per stabilire un legame tra lui e il Padre che c’è sempre, ma servono a rivelare tutto questo a quanti gli sono attorno e, nel miracolo che sta per compiersi, devono riconoscere in lui il Figlio di Dio, inviato dal Padre a portare la vita agli uomini. Altrettanto importanti sono quindi le parole che Gesù dice poco prima a Marta: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?» (Gv 11,40). Solo chi crede in Gesù e ne riconosce il potere di dare la vita coglie la presenza di Dio nel mondo, la rivelazione del suo volto, la sua gloria. Gesù è tutto per il Padre e noi, se vogliamo toccare il mistero di Dio, dobbiamo passare attraverso di lui, ora nei segni e poi, nella Passione, nel dono di sé, compimento dell’amore.

         E si giunge al miracolo, al ritorno alla vita dell’amico Lazzaro, tutto descritto con brevità, perché nulla ci distolga dal significato: «Detto questo, [Gesù] gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: “Liberàtelo e lasciàtelo andare”» (Gv 11,43-44). Il fatto – un morto riportato in vita – parla da sé; non ha bisogno di essere avvalorato da troppi particolari. Ciò che conta è che – come Gesù ha ampiamente illustrato in tutto lo svolgersi della vicenda – la risurrezione di un morto alla vita mortale ci è offerto come il segno che colui che è in grado di far questo ha in sé un potere di vita che vale per la vita eterna e che egli è pronto a donare a coloro che credono che lui sia la presenza di Dio tra noi, il Figlio unigenito del Padre.

         Ora però dobbiamo andare ai versetti che seguono la lettura liturgica per comprendere le conseguenze di questa fede. Ne sono ben consapevoli i membri del sinedrio che, avvertiti di quanto è accaduto a Betania, si riuniscono per prendere le contromisure: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione» (Gv 11,47-48). L’interesse egoistico degli uomini del potere si nasconde dietro al bene della religione e della nazione, ma essi comprendono che se la fede in Gesù si diffonde essa mette in pericolo tutti gli equilibri umani, perché offre la possibilità di vincere la morte e quindi di rendere veramente libero l’uomo. Chi crede in Gesù non teme nessun potere umano, politico, sociale, culturale, neanche il dominio degli affetti o quello della pubblica opinione, perché non teme più la morte: nulla gli può essere tolto, perché gli è data in dono la vita; o, se vogliamo esprimerci in altro modo, tutto gli può essere tolto, ma avrà sempre con sé la sorgente della vita.

Quanto sia eversiva questa prospettiva lo capiscono bene i sinedriti e non possono che convenire con la soluzione proposta dal sommo sacerdote Caifa: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50). Con ironia, l’evangelista qualifica queste parole come profezia «che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,51-52). L’ultima lettura teologica di quanto è accaduto a Betania la offre chi si oppone a Gesù: egli deve morire, così che si ricomponga l’unità della famiglia dei figli di Dio. Il significato salvifico della vita e della passione e morte di Gesù è pienamente svelato dai suoi nemici.

         Tutto si conclude con il proposito del sinedrio: «Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (Gv 11,53). Una decisione che capovolge l’orizzonte su cui si è mosso tutto il racconto: colui che dona la vita viene condannato alla morte. Ma, come inconsapevolmente profetizza Caifa, sarà la sua morte a portare la vita al mondo. Per raggiungere tutti gli uomini, votati alla morte, Gesù entrerà egli stesso nell’abisso della morte, per vincerla dall’interno, spezzando il suo potere di corrompere la vita umana.

Possiamo concludere con le parole dell’apostolo Paolo:

«La morte è stata inghiottita nella vittoria.

Dov’è, o morte, la tua vittoria?

Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?

[…] Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Cor 15,55.57).

 

Giuseppe card. Betori