Anniversario

Un anno fa l’ingresso del vescovo Giovanni a San Miniato

Intervista al vescovo Giovanni di don Francesco Ricciarelli e Francesco Fisoni

 «Parlare di un anno fa vuol dire tornare a uno di quei momenti in cui la vita cambia improvvisamente, perché il Signore ha deciso di far fare una strada nuova», racconta monsignor Paccosi nell’intervista a un anno dal suo ingresso come vescovo di San Miniato. «La sfida che sento più profonda è quella della vicinanza ai sacerdoti che sono impegnati con tante responsabilità di tutti i tipi e che vorrei sentissero la mia stima e la mia amicizia»

 

Abbiamo ancora negli occhi e nel cuore quel 26 febbraio del 2023, quando monsignor Giovanni Paccosi, a distanza di tre settimane dalla sua ordinazione episcopale, faceva il suo ingresso in diocesi. Una giornata fredda e piovosa che costrinse a modificare parte del programma delle celebrazioni, ma che non spense il calore dei sanminiatesi per l’arrivo del loro nuovo pastore. Un bel momento di Chiesa con tanti giovani, famiglie, movimenti e associazioni, con gli amici di Firenze e i parrocchiani di Casellina a gremire la cattedrale di Santa Maria Assunta e San Genesio.

A distanza di un anno da quel giorno, abbiamo rivolto a monsignor Paccosi una lunga intervista su questo suo primo anniversario da vescovo di San Miniato.

Eccellenza, il 5 febbraio scorso ha festeggiato un anno dalla sua ordinazione episcopale e il 26 celebreremo il primo anniversario dal suo ingresso a San Miniato. Che ricordi ha di quel mese così intenso di un anno fa?

«Parlare di un anno fa vuol dire tornare a uno di quei momenti in cui la vita cambia improvvisamente perché il Signore ha deciso di far fare una strada nuova. Mi era già capitato altre volte nella vita: quando scoprii la vocazione, quando sono diventato prete, le tante volte che sono stato invitato a cambiare parrocchia, soprattutto quando sono stato mandato in Perù, ma anche al ritorno in Italia a motivo della malattia del mio carissimo amico don Paolo Bargigia. L’anno scorso ho dovuto iniziare una vita nuova a 62 anni. Certo, è un grande dono: essere stato ordinato vescovo vuol dire, e ne sono consapevole, essere stato chiamato ad essere successore degli apostoli, e non finisco mai di stupirmi che possa essere toccato a me che sicuramente non ne sono degno. Ma la cosa che mi rincuora, dai ricordi dell’anno scorso, è stata la gioia di vedere la Chiesa intorno a me gioire per questo dono che è per tutti. E poi l’accoglienza che mi è stata riservata a San Miniato e la bellezza dell’esperienza di fede che ho trovato in tante parrocchie, comunità, movimenti. Conoscendo questa realtà sono ancora più convinto che sia piena di belle esperienze di fede che sicuramente fioriranno in cose grandi e di questo ringrazio anche i miei predecessori, in particolare don Fausto e don Andrea che hanno seminato bene».

Quali sono state le esperienze più forti o più significative di questo primo anno come vescovo di San Miniato?

«Non saprei dire quali siano state le esperienze più forti, ma sono molto contento degli incontri con le comunità parrocchiali, con le fondazioni che fanno riferimento alla diocesi, in particolare Stella Maris e la Madonna del Soccorso, realtà significative e luminose nella nostra diocesi, e con le associazioni e movimenti – non li nomino per paura di lasciarne indietro qualcuno. Ho visto la ripresa del cammino sinodale che, in particolare a partire dall’assemblea che abbiamo fatto a novembre, sta coinvolgendo molte persone e credo che porterà grandi frutti per la nostra Chiesa, anche come spirito e stile sinodale, in cui prevale l’ascolto sull’affermazione dei nostri progetti, l’ascolto di ciò che Dio vuol costruire con noi più che di quello che noi pensiamo di voler costruire. Questo riempie di un entusiasmo che altrimenti non avremmo perché vedere Dio all’opera nella storia è quello che dà fiducia e speranza per il futuro».

Che sfide che ha dovuto affrontare?

«La sfida che sento più profonda è quella della vicinanza ai sacerdoti che sono impegnati con tante responsabilità di tutti i tipi e che vorrei sentissero la mia stima e la mia amicizia. Sottolineo la disponibilità che trovo in loro, anche ora che ho dovuto cominciare a fare qualche spostamento, e la disponibilità ad assumersi anche incarichi gravosi. Mi sorprende la grande letizia con cui i preti più anziani vivono la loro dedizione al popolo di Dio e questo è un esempio anche per i sacerdoti più giovani, anch’essi pieni di fervore nel dare la propria vita per gli altri e per la costruzione della Chiesa. La sfida è anche quella di coinvolgere sempre più i giovani e su questo tutti siamo impegnati».

Come ha cercato di stabilire il suo rapporto con i fedeli e col clero?

«Ho cercato soprattutto di conoscere le persone. Non so se sono capace di coinvolgerle e di stabilire un rapporto positivo con loro. Cerco di essere me stesso. Quello che faccio tutti lo sanno perché l’agenda del vescovo riporta tutti gli appuntamenti e tutte le cose che mi trovo ad affrontare, sia in diocesi che nell’impegno missionario che porto avanti perché la Chiesa me lo chiede. Questo credo che stia stabilendo un rapporto di fiducia e spero che possa essere un aiuto per tutti a sentirsi a casa nella Chiesa».

In più di un’occasione ha raccontato di aver scoperto a San Miniato uno stile di Chiesa tipicamente sanminiatese. È un’idea molto suggestiva… Vorrebbe argomentarcela? In cosa rileva maggiormente questo stile?

«Ho trovato certe particolarità, che poi sono solo accenti, perché la Chiesa è una. Avendo vissuto anche dall’altra parte del mondo direi che ci sono cose fondamentali che sono uguali da tutte le parti: sono i tratti di Gesù, che emergono sempre al di là di tutte le nostre differenze e poliedricità. Ma un colore e un modo di vivere la fede che è particolare nella nostra diocesi lo dice ad esempio la passione per il canto corale. Mi colpisce poi la ricchezza delle tradizioni, che non sono solo folklore, ma sono la trasmissione della fede che ha percorso i secoli. Ci sono delle tradizioni che hanno ancora una forza trainante e credo possano essere, anche per i giovani, una strada per conoscere Gesù. Un altro aspetto particolare della nostra diocesi è la ricchezza dell’associazionismo, dal volontariato al servizio ai più poveri, alle associazioni che aiutano a vivere la fede. Un’altra caratteristica della Chiesa di San Miniato è il suo essere una diocesi decentrata. Non ha un punto solo verso cui tutto converge ma ci sono tanti centri e tante realtà che contribuiscono a questa bellezza multicolore».

Sappiamo bene della sua passione per l’arte. Quali sono le opere della nostra diocesi che l’hanno colpita maggiormente? Come si potrebbe lavorare per valorizzare maggiormente il nostro patrimonio storico-artistico?

«Dal punto di vista dei beni culturali, siamo in Toscana e quindi abbiamo una grande ricchezza. Sicuramente possiamo fare ancora per molto valorizzare le tante opere d’arte, le tante bellezze che ci sono state consegnate dalla storia e che sono il frutto di una fede vissuta. Una sfida importante che abbiamo è quella di completare la catalogazione di tutte le opere della nostra diocesi, che era stata iniziata molti anni fa e che si è poi fermata. Questo è un obiettivo necessario per una loro valorizzazione, nel senso della presa di coscienza della bellezza di ciò che abbiamo e di come la bellezza è strada per conoscere la verità. Nelle nostre parrocchie ci sono dei tesori ancora nascosti e anche nel nostro museo diocesano ci sono opere stupende. Mi viene in mente il busto di Gesù, attribuito ad Agnolo di Polo ma che probabilmente è addirittura del suo maestro Verrocchio, e che è un’opera unica. Non ho mai visto una raffigurazione di Gesù con queste caratteristiche. Ma è difficile fare una classifica. Ci sono cose bellissime in tutto il nostro territorio. La bellezza dell’arte del passato deve aiutarci a rendere anche la nostra vita attuale creativa, a vedere che dalla fede vissuta può nascere una bellezza che si esprime sì nell’arte, ma soprattutto nel creare rapporti belli e nel realizzare una comunità in cui tutti siano accolti, tutti si sentano a casa, e in cui la bellezza diventi il modo in cui ci mettiamo in rapporto gli uni con gli altri, che è quello che nasce quando lasciamo che sia Gesù a guidare la nostra vita».

Guardiamo al futuro… quali sono i suoi desideri e le speranze per il futuro della nostra Chiesa locale?

«Rispetto al futuro la preoccupazione e il tema che mi sta più a cuore è quello delle vocazioni. Per la mentalità che ci circonda sembra difficile fare scelte definitive, per tutta la vita. Tutto sembra che sia così fluido, affidato al momento e al sentimento, mentre quando ci accorgiamo che la nostra vita è un dono che un altro ci fa, possiamo affidarci a lui e seguire i suoi inviti con la coscienza che lui ci porterà verso il bene che tutti speriamo e desideriamo. Ci fermiamo lì dove arrivano i nostri limiti e invece il Signore lancia il nostro cuore molto più in là, verso ciò che è eterno, infinito, definitivo. Ma senza l’aiuto di Dio non lo potremmo vivere. Questa è l’urgenza che sento più forte per la nostra Chiesa. E l’altra è quella di costruire insieme la nostra comunità diocesana nell’obbedienza e nel lasciarci guidare dalla Chiesa. Non dobbiamo inventare delle novità, dobbiamo aderire a quello che ci viene proposto, in questo momento in particolare il cammino sinodale, e da questo verranno fuori degli spunti creativi che ognuno saprò realizzare secondo la propria originalità. Un’altra urgenza che sento è quella di mettere in comune le esperienze virtuose che si vivono nelle nostre comunità, che possono essere anche “copiate” dalle altre comunità, proprio perché siamo un corpo e ci possiamo aiutare in questo: creare una collaborazione sempre più grande fra le parrocchie vicine, perché ci sono tanti aspetti della nostra vita ecclesiale che non si possono esaurire all’interno di una sola parrocchia. Penso alla formazione dei giovani e a tanti aspetti della nostra vita che non ha più una dimensione chiusa dentro un paese o una parrocchia ma che è più ampia. Dobbiamo sempre più valorizzare il livello vicariale, diocesano e anche delle unità pastorali per rendere sempre più belle le nostre comunità».

C’è qualche lezione particolare che ha imparato nel suo primo anno come vescovo e che le fa piacere condividere con noi?

«Se penso a quello che ho imparato, più che cose altisonanti, ho imparato a voler bene a tante persone che non conoscevo e che ora porto nel cuore. Vorrei voler bene a tutte le persone che il Signore mi affida e so di non poterlo fare come sarebbe giusto, per i miei limiti, ma lo desidero e spero di non essere di ostacolo alle persone perché possano scoprire Gesù, che è l’unico pastore e maestro, di cui noi tutti siamo servitori, e io più degli altri. A volte ho visto che, prendendo delle decisioni, qualcuno non si trova a suo agio. Mi piacerebbe poter avere il modo di spiegarsi, di capirsi, anche se non sempre è facile. Nel tempo penso che sarà sempre più agevole entrare in sintonia e spero che il Signore ci aiuti a costruire una comunione in cui ognuno si senta voluto bene come il Signore vuole che sia. Ho imparato anche che nella nostra comunità ci sono tante persone che soffrono e che hanno bisogno della nostra presenza. Anche a loro vorrei essere più vicino, sia a chi soffre per la povertà, sia a chi soffre per la malattia o per l’isolamento. Lo faccio anche in qualche modo attraverso i sacerdoti, le religiose, le persone che si prendono cura di loro, ma vorrei farlo personalmente e spero anche in questo di essere più capace con l’aiuto del Signore».