«400 anni più uno», una storia grande che ci è chiesto di guidare

La Diocesi è entrata nel suo quinto secolo di vita

Intervista al vescovo Giovanni a chiusura del Giubileo, di F. Fisoni*

Con la solenne celebrazione in cattedrale dell’Immacolata, questo 8 dicembre, viene consegnato alla storia il Giubileo straordinario della Chiesa di San Miniato, per i 400 anni dalla sua fondazione. Fu monsignor Migliavacca, alla presenza del cardinale Betori e di una parte dell’episcopato toscano, ad aprirlo nel dicembre di un anno fa. È stato monsignor Paccosi a chiuderlo venerdì scorso, con una solenne liturgia che includeva anche l’ordinazione diaconale del seminarista Alfonso Marchitto e il rinnovo dell’affidamento della diocesi alla Madonna. Un anno intenso e denso di celebrazioni. Abbiamo raccolto in un’intervista il pensiero del vescovo Giovanni a chiusura di questo tempo di grazia.

Eccellenza, quello appena trascorso è stato un anno importante per la nostra diocesi, così come per lei…

«Si… anche se sono arrivato in diocesi ad anno giubilare già iniziato, è stata l’occasione per inserirmi da subito in una grande storia e scoprire che da questi 400 anni di vita cristiana della Chiesa di San Miniato sono nate tante cose grandi di carattere religioso, culturale e caritativo. Il Giubileo ha rappresentato per me davvero un’opportunità per conoscere meglio questa realtà ecclesiale. Insieme al Giubileo, la visita alle varie comunità ha reso questo tempo davvero particolare. Non ho ancora finito di vivere il mio primo anno da vescovo, ma osservo che poter chiudere l’anno giubilare è proprio un segno di questo entrare dentro la vita della comunità».

Quali sono stati i momenti più significativi di questo tempo che le preme ricordare?

«Direi, in particolare, il giubileo delle famiglie, dei ministranti e dei ragazzi celebrato lo scorso 14 ottobre; è stato un momento di Chiesa veramente bello, in cui si è vista una comunità cristiana giovane, capace di condividere e di fare festa. Poi ricorderei il giubileo dei movimenti e delle comunità ecclesiali che abbiamo celebrato la vigilia di Pentecoste: la cattedrale era stracolma, i canti bellissimi e la partecipazione attenta. Ho visto proprio esprimersi un popolo contento della propria fede e desideroso di comunicarla a tutti. Ma ricorderei anche altri momenti, come il giubileo dei giovani con le testimonianze di chi nell’estate aveva vissuto esperienze particolari, così come quello delle associazioni caritative, veramente una costellazione di denominazioni convocate a maggio dalla nostra Caritas, che sono state una testimonianza meravigliosa dello spirito della nostra gente di mettersi al servizio degli altri. Ma tutti gli appuntamenti e le celebrazioni hanno segnato, ognuno a suo modo, questo desiderio di celebrare insieme una storia che ci ha consegnato la fede e della quale noi siamo oggi responsabili perché la fede sia comunicata».

Un Giubileo che si è intrecciato anche con il Sinodo. La Chiesa di San Miniato ha vissuto davvero un tempo forte, non ordinario, nel suo cammino nella storia. Quali frutti hanno portato nelle nostre comunità questi eventi e cosa potranno ancora portare in avvenire?

«Il secondo anno di ascolto, all’interno del cammino sinodale, ha visto in diocesi l’avvicendamento tra me e monsignor Migliavacca, esattamente nei mesi in cui si sarebbe dovuto approfondire il lavoro dei cosiddetti “cantieri di Betania”, che ne hanno un po’ risentito. Le celebrazioni per i 400 anni della diocesi hanno però mantenuto vivo il fuoco del sinodo; lo abbiamo visto nell’assemblea diocesana del 19 novembre scorso a Santa Croce sull’Arno, che ha dato avvio alla fase del discernimento, dove c’è stata una partecipazione attenta e consapevole, animata dal vivo desiderio di continuare insieme, nelle comunità parrocchiali, nei gruppi, nei movimenti questo cammino intrapreso. Quindi, da questo punto di vista, direi che l’anno del Giubileo si è rivelato un moltiplicatore di energie. Adesso vediamo che cosa questo itinerario ci farà ancora scoprire. Sono davvero in attesa di rendermene conto anche io»

Adesso ci attende il Papa a Roma a ideale chiusura di questo anno. Un dono grande…

«Si, l’idea era nata dall’iniziativa del grande presepe vivente a Santa Maria Maggiore, chiesto dal Papa stesso all’associazione “Terre di presepi”, realtà nata nella nostra diocesi. Questo pellegrinaggio del 16 dicembre, che diventa per noi un momento di ringraziamento per il Giubileo, ha due aspetti che mi sembrano particolarmente significativi. Il primo, appunto, è che andiamo a ringraziare per questo anno che abbiamo vissuto; e andare alla tomba di Pietro, andare dal Papa, vuol dire proprio chiedere di ritrovare la radice di ogni nostra azione. Farlo poi anche con la celebrazione del presepe vivente, insieme a migliaia di figuranti da tutta Italia, è un aiuto a ricollegarci con quell’inizio in cui Gesù venne tra di noi, povero fra i poveri; è un metterci anche noi fra questi poveri, mendicanti verso quel Bambino che è il segno più grande della misericordia di Dio per noi. Andiamo a Roma per lasciarci affascinare di nuovo dal Signore, che ha voluto farsi così piccolo proprio per renderci possibile il sentire, con più facilità, tutta la sua tenerezza».

Fra un secolo i nostri posteri, quando si accingeranno a festeggiare il mezzo millennio della diocesi, andranno probabilmente a rivedere cosa abbiamo fatto noi. Se potesse, cosa vorrebbe dire loro?

«Fra un secolo, o fra dieci secoli, la questione sarà sempre la stessa: lasciarsi plasmare come strumenti nelle mani del Signore, per essere suo corpo vivo, Per essere noi le mani e i piedi con cui lui giunge a tutti e con cui abbraccia tutti. Per permettere a Lui, attraverso il nostro sì, di compiere miracoli. Questo è il compito che hanno avuto i nostri predecessori, uno, due, tre secoli fa…, fino a quel primo momento dell’incontro con Gesù; un compito che anche a noi è chiesto di consegnare a chi verrà dopo di noi». Questo Giubileo lascia un’opera simbolo? «Non ho in mente un’opera specifica. Direi che l’opera più grande, che dobbiamo continuamente chiedere al Signore, e che spero rimanga davvero nel cuore di ognuno, è la nostra conversione».

C’è qualcosa, secondo lei, che poteva funzionare meglio in questo anno?

«Mi sento davvero di dire che chi ha lavorato perché tutti i gesti del Giubileo fossero realizzati e trasmessi a tutti, non ha mancato in qualcosa. Anzi, mi sembra che l’impegno sia stato profuso in modo eccezionale da parte di tutti, sia delle persone chiamate a coordinare, sia di quelli che via via, secondo i vari ambiti, hanno portato avanti queste giornate. Io ne sono veramente grato e una delle prime cose che ho notato è che il Giubileo è stato per ciascuna di queste persone un’occasione da vivere come cammino di fede, e questa direi che è la cosa fondamentale. Credo che anche in tutte le parrocchie della nostra diocesi si sia vissuto lo stesso spirito. Visitandole ho sempre notato affisso nelle chiese lo stendardo con il Cristo del Giubileo dipinto da Luca Macchi. Per le nostre comunità ritengo davvero che si sia trattato di un momento di consapevolezza forte della grande storia che ereditiamo e di coscienza anche delle responsabilità che ci sono chieste per renderla viva nel presente».

Ci racconta un aneddoto, un suo personale ricordo, che si lega all’aver vissuto il Giubileo da vescovo?

«Più che un aneddoto specifico, vorrei sottolineare come per me sono stati importanti anche i gesti culturali, collaterali alle celebrazioni vissute in questi mesi. In particolare ricordo la presentazione del libro sulla fondazione della diocesi, in cui sono stati pubblicati tutti i documenti originali con cui si arrivò alla costituzione della diocesi di San Miniato nel 1622. Poi la presentazione del libro sul Palazzo vescovile che ci riporta a tutta la vita che si è svolta tra le mura dell’edificio in cui oggi io abito e che racchiude in sé tanta storia della città. Anche questi due eventi sono stati momenti utili a comprendere il valore del tempo, come succedersi di istanti in cui ci è chiesto di dire il nostro sì, perché il Signore attraverso di noi, con tutti i nostri limiti, possa fare cose grandi. Vorrei poi ricordare anche gli eventi proposti dalle associazioni del territorio di San Miniato, soprattutto in queste ultime settimane: sottolineerei in particolare l’opera teatrale «La sagra dei vescovi» scritta da don Francesco Ricciarelli, che ripercorre l’avvicendarsi dei pastori della Chiesa di San Miniato, attraverso l’immagine della granduchessa Maria Maddalena d’Austria. Oppure lo spettacolo «La misericordia è degli inquieti», su testo di Davide Rondoni, organizzato dalla Misericordia di San Miniato e rappresentato in cattedrale nel settembre scorso, che mi è parso davvero un contributo bellissimo al Giubileo. Sottolineo questi pochi eventi ma ricordo con gratitudine tutte le manifestazioni e i momenti culturali che hanno reso questo anno davvero ricco di vita. E per questo ringrazio tutti coloro che ne sono stati protagonisti e artefici».

C’è una riflessione che le si propone al termine di questa intervista?

«Più volte ho pensato che siamo nell’anno 400 più uno. Un anno in cui sto personalmente conoscendo la diocesi che il Signore mi ha affidato. Un anno in cui ho visto, anche di fronte alle grandi difficoltà, come quella delle inondazioni del mese scorso, la grandezza del cuore della nostra gente; un anno in cui ho conosciuto tante tradizioni, tanto folclore – nel senso più nobile del termine -, che vive nelle nostre comunità; e un anno di volti che sono diventati cari, e sono tantissimi. Ma anche “400 più uno”, dove quell’uno sono proprio io come vescovo, che mi trovo a ereditare questa storia grande da guidare. Spero di poterlo fare in modo sempre più sinodale, non come slogan, ma nel senso proprio di riconoscere ciò che lo Spirito fa nascere dentro le nostre comunità per indicarlo a tutti come testimonianza e poter seguire insieme quello che il Signore ci suggerisce attraverso il magistero della Chiesa e il Papa. Perché da questo si possa continuamente rinnovare – anzi, userei una parola forte: “rivoluzionare” – la nostra esistenza, nel desiderio di essere evangelici nei fatti. Quindi sinodalità intesa come comunione vissuta in cui lo sguardo e l’udito siano tesi a riconoscere ciò che Dio ci dice, perché il suo mistero, da quando si è fatto carne, ci parla sempre attraverso le circostanze concrete e nel desiderio che ci mette nel cuore di cambiare il mondo a immagine del vangelo».

*Fonte: «TOSCANA OGGI/La Domenica» del 10 dicembre 2023