In occasione del 15° anniversario della morte di don Barsotti, il vescovo Andrea celebrerà questa domenica 14 febbraio alle 11.30 la santa Messa dalla pieve di San Martino a Palaia.
Il 15 febbraio ricorre il quindicesimo anniversario della nascita al Cielo del servo di Dio don Divo Barsotti (1914-2006), teologo di fama internazionale, uomo di cultura e fondatore della Comunità dei Figli di Dio. Vorrei allora provare a tratteggiare, in questa sede, un breve ritratto del «palaiese» don Divo: anche perché, lo dico subito, alcuni aspetti del suo magistero sono, secondo me, da mettere in relazione con l’aver vissuto nel suo paese, Palaia, che è pure il mio.
Cominciamo dai primi anni di sacerdozio di don Divo. Era pievano di Palaia, monsignor Giovanni Vegni, uomo di riconosciuta levatura culturale e profondo conoscitore della liturgia; a don Divo, che si trovava, per disposizione del vescovo Giubbi, nella casa di famiglia e collaborava col pievano, erano state affidate le funzioni di cappellano, cosicché egli celebrava ogni domenica la seconda messa della parrocchia. Erano messe nelle quali il giovane sacerdote si distingueva per lo sprigionare una forte carica spirituale, soprattutto com’è naturale, nel momento della consacrazione, la cui durata poteva raggiungere addirittura i quindici minuti, con una sorta di percepibile, totale immedesimazione nel sacrificio eucaristico; un fatto così partecipato, che ancora oggi vi sono anziani del paese che ricordano questa caratteristica. Mi piace pensare che un siffatto modo di celebrare, che per certi versi rimarrà in lui anche dopo la riforma liturgica, sia stato ispirato, almeno in una qualche misura, dalla collaborazione col predetto pievano.
Dopo il trasferimento nella diocesi di Firenze, come ben si sa, don Divo non perse i legami con il paese natio: a Palaia, nell’eremo della Fornace di Collelungo, la sua Comunità ebbe, sin dalla fondazione, un luogo perfetto, ove i monaci potevano svolgere i propri ritiri e fortificare la loro formazione, in un ambiente incontaminato, immerso nel verde; un luogo che è tuttora caro agli appartenenti alla Comunità, nel quale terra e cielo si uniscono in un unico abbraccio. Anche qui mi viene da supporre che proprio in grazia della frequentazione dell’«ermo colle» della Fornace sia stato possibile al sacerdote palaiese scrivere il bel libro «La religione di Giacomo Leopardi», nel quale, facendo giustizia di molti sbrigativi giudizi della critica letteraria, riusciva a percepire, tra le pieghe delle opere del poeta, tracce dell’intimo anelito verso la trascendenza.
Pur essendo lontano ed impegnato in tante attività che la sua fama di uomo di Dio gli procurava – chi potrebbe dimenticare gli esercizi spirituali predicati alla Curia romana nel 1971? – don Divo trovava anche il tempo per seguire le vicende palaiesi. In occasione delle solenni celebrazioni del Santissimo Crocifisso dello stesso anno, che portarono Palaia e le sue opere d’arte ad essere conosciute in tutta Italia, mediante la trasmissione della Messa festiva sull’allora canale nazionale della Rai, furono pubblicate nell’opuscolo celebrativo due lettere, indirizzate al pievano di quei giorni, don Sirio Soldani, le quali costituiscono altrettante sublimi lezioni sul mistero della Croce: una l’aveva scritta Giorgio La Pira, il sindaco «santo» di Firenze, e l’altra proprio don Divo.
Un’ulteriore occasione, che segnala la premura di don Divo per il suo paese, la si può riscontrare nella prefazione alla ristampa nel 1986 del libro «Elevazioni sul mistero dell’Eucaristia del beato Pio Alberto Del Corona»: tale ristampa, che segnò una rinnovata attenzione verso la vita e gli scritti del presule samminiatese, culminata con la conclusione del processo di beatificazione nel 2015, era stata promossa proprio dalla parrocchia di Palaia, dove era ben attiva una scuola materna, condotta dalle Suore domenicane dello Spirito Santo, figlie spirituali del citato Del Corona. Don Divo, ben volentieri, curò la prefazione del volume e, pur evidenziando le parti, per così dire, «invecchiate» del libro, alla luce degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, entrava in piena sintonia con l’autore, notandone lo spirito contemplativo che, come si può immaginare, gli risultava assai consono; infine, plaudeva alla iniziativa editoriale, ritenendo l’opera ristampata utile anche per i cristiani di oggi.
È tempo di concludere. E mi scuserà il lettore, se lo farò con una notazione personale. L’ultima volta che ho incontrato don Divo è stata in occasione delle esequie per la morte del fratello, il canonico don Giovanni, altro palaiese verace. Ero lì sia per l’amicizia di famiglia e la comunanza di interessi verso la storia, che mi legavano a don Giovanni, sia in veste ufficiale, quale vicesindaco di Palaia. Ricordo, come se fosse ora, l’esordio dell’omelia di don Divo nella Cattedrale: dinanzi al Capitolo, a gran parte dei presbiteri diocesani e alle autorità convenute, con voce ferma e lo sguardo quasi rapito, egli squarciò il silenzio della chiesa, ponendo un interrogativo agli astanti, che risuona in me ogni volta che accompagno qualche persona cara all’ultima dimora: «Mio fratello – chiese – l’avrà mai avuta in vita una festa come questa?». Già. La «festa delle esequie»: un ossimoro, che ossimoro non è per l’anima sinceramente cristiana; per chi aderisce al progetto di Dio e crede davvero nella salvezza procurata a tutti gli uomini dalla passione redentrice del Cristo che, con la sua croce, ha vinto la morte. Ma come sono difficili da pronunciare queste parole! Forse soltanto un santo poteva farlo.