Riflessioni

Il Cantico delle creature, inno di lode scaturito nel tempo della sofferenza

di Marilina Veca

Secondo un’antica leggenda Francesco ha scritto il Cantico nel 1224, dopo una notte di sofferenza e preghiera. Nella poesia, composta in forma di lauda, il Frate rivolge un altissimo inno al Signore per aver creato il mondo, manifestazione concreta della Sua bontà e del Suo amore. Chiama ‘fratelli’ e ‘sorelle’ tutti gli esseri del creato perché tutte, indifferentemente, sono creature del Signore ribadendo la nullità dei beni terreni in confronto alla salvezza dell’anima. «A che serve guadagnare tutto il mondo, se poi perdi la tua anima?» sta scritto nei Vangeli. Anche la morte è una “sorella”, anzi è momento di gioia in cui si lacera il “velo di Maya” e si manifesta la speranza e la realtà della vita eterna, quella vita che non ci sarà mai tolta. Le parole del Cantico sono pure e semplici, parole ricche di gioia e di amore che nella loro meravigliosa freschezza non possono avere come destinatario altri se non il Signore. L’opera segue una precisa e non casuale struttura: la lode per “lo frato Sole” che, anche se in maniera indiretta, risulta presente in tutta l’opera, e poi quelle per “lo frato Vento”, l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco.

Francesco si sottoponeva a privazioni ed austerità, sempre in gioia ed allegria: come quando si ammalò di una grave infezione ad un occhio. In breve tempo l’infezione si estese ed invase tutta la parte sinistra della testa. Non restava altro da fare che cauterizzare la sorgente dell’infezione, l’occhio divenuto fonte di quell’infermità che continuava a dilagare. All’epoca ‘cauterizzare’ non era operazione da eseguire sotto anestesia o con raffinati strumenti chirurgici: si procedeva ad arroventare la lama di un coltello e a poggiarla sulla parte malata. I frati spaventati non riuscirono a resistere accanto a Francesco che si accingeva a posare la lama incandescente sulla ferita. Così Francesco rimase solo e si mise a pregare: con allegria e serenità chiese a Frate Fuoco di essere pietoso con lui, di non fargli troppo male. E così fu: quando i frati terrorizzati tornarono a vedere cosa fosse accaduto, trovarono Francesco per nulla turbato che aveva felicemente superato l’impatto con il coltello rovente senza paura e senza cedimenti.

Si dice che il Cantico sia stato scritto a seguito di un sogno nel periodo in cui Francesco era afflitto da dolori atroci per problemi che lo portarono assai vicino alla cecità, una cecità accompagnata da incredibili sofferenze in notti senza sonno segnate a tratti anche dall’afflizione, dalla solitudine e dalla paura.

In quelle notti Francesco chiese misericordia al Signore, chiese che ponesse la Sua mano sulla testa per poter sopportare, per poter riacquistare pazienza e forza, per rendere il dolore un dono e non una condanna. Il Signore rispose alla supplica di Francesco: «Fratello, sii felice ed esultante nelle tue infermità e tribolazioni, d’ora in poi vivi nella serenità, come se tu fossi già nel mio Regno» (Leggenda perugina, 1591). Allora Francesco reagì al dolore e volle «a lode di Lui e a sua consolazione e per edificazione del prossimo comporre una nuova Lauda del Signore per le sue creature» (Leggenda perugina, 1591). Così nacque il Cantico: da un sogno, perché «c’è un Dio nei cieli che rivela i misteri» (Dn 2,28). S Nacque così questo poema universale che porta in sé poesia, lode e santità, un testo capace di far suo un messaggio trascendente, cosmico e sacro. Una lode che abbraccia l’intera Creazione in quanto madre e sorella dove il sole, la luna, l’acqua, non sono altro che simboli di un itinerario interiore che Francesco ha scavato, contemplato, impastato di povertà e silenzio, un cammino che lo porta a stare con le creature, non sopra di esse, fratello nella condivisione di ogni dono del Signore. Il creato nella sua interezza è luce e manifestazione di grazia, cantato da frate Francesco con un’innocenza che Fra’ Bonaventura definisce ‘mattinale’. Il Cantico non è altro che una lode benedicente: «per trarre da ogni cosa incitamento ad amar Dio, esultava per tutte quante le opere delle mani del Signore e da quello spettacolo di gioia, risaliva alla Causa e Ragione che tutto fa vivere» (Leggenda Maggiore IX, 1; 1161).

La povertà radicale vissuta in completa solidarietà con i poveri e da povero, attiva in Francesco un processo di liberazione tale da renderlo ricco solo dell’amore di Dio e libero della libertà dei figli di Dio, quella libertà che gli permette di affratellarsi senza potere e pregiudizi con tutti gli esseri viventi. Francesco risponde alla chiamata del Signore: «Va, e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina» (2 Cel. 593) : servus et humilis, servo dei servi, umile fra gli umili, povero fra i più poveri, Francesco si prostra davanti al Signore in una lode perenne per tutto ciò che ha creato – cum tucte le sue creature – espressione perfetta di puro devoto il cui cuore senza riserve si abbandona a Dio. Francesco canta la nudità degli esseri viventi in rapporto alla Persona Suprema esprimendo in un altissimo momento poetico il concetto che noi non siamo i controllori né i proprietari e che l’unica strada per una felicità vera è l’abbandono totale al Signore. Un poeta e sacerdote cattolico – Davide Maria Turoldo – ha scritto: «Tu sei un liuto, Francesco, ma è il Signore che suona il liuto; tu sei un flauto, Francesco, ma il soffio è del tuo Signore; tu sei un monte sopra la valle, Francesco, ma l’Eco, l’Eco è la voce sua e del suo silenzio».

Come si dice nella tradizione ebraica, le porte del cielo si aprono col ringraziamento e con la lode: la benedizione (berakha) ha valore “ascendente”, dall’uomo a Dio, così come le lodi dei salmi. La benedizione è il valore che regge il creato, principio e fine di tutto. Tutta la realtà porta in sé la forza della benedizione, della berakha. Con questa benedizione Francesco si rivolge a Frate Leone: «Il Signore ti benedica e ti custodisca. Ti mostri il suo volto e abbia misericordia di te. Volga a te il suo sguardo e ti dia pace. Il Signore benedica, frate Leone, te». Nella prassi ebraica l’espressione «Benedetto tu, o Signore» s’interpone tra ogni cosa e la sua fruizione per dire che «chi usa di una cosa senza la benedizione è infedele e ladro». Ogni realtà, venendo dal Signore, è Sua (Lv 25,23).

Il chiamare ogni elemento e creatura “frate” e “sora” va al di là dell’invenzione poetica: indica una “fratellanza cosmica” che attinge alla radice di ogni elemento, di ogni essere. Di Frate Sole Francesco ricorda due dimensioni: quella di luminare che, insieme alla luna, scandisce il tempo e le stagioni e quella di essere la sola creatura (eccetto l’uomo) che «porta significazione» dell’Altissimo. La Madre Terra viene ricondotta da Francesco alla dimensione di “sorella” e nella lode si unisce anche “Frate Foco”, colui che in mano all’uomo è utile e illumina, è bello e giocoso, ma parimenti forte e robusto, invincibile distruttore, capace di ferire come di curare (pensiamo all’occhio cauterizzato). E grande è la lode per Frate Vento purificatore esterno ed interno, dell’aria e dell’anima: il vento, manifestazione esterna dell’anima. L’Eterno nella forma del vento pulisce l’aria, come dicono le scritture vediche: come potrebbero nascere gemme sugli alberi se prima non venisse il vento a spazzar via i rami e le foglie secche? E una particolare lode è anche quella per Sora Acqua: come ricorda un poema mesopotamico il Signore è il sapore originario dell’acqua.

Nel Cantico si evidenziano le due strofe finali: quella in cui si parla dell’uomo che perdona, che sopporta infermità e difficoltà, di coloro che vivono in pienezza la pagina evangelica delle beatitudini, che superano l’afflizione, la fame e la sete abbandonandosi al puro amore di Dio, che aspirano alla pace, che sopportano ogni austerità e penitenza per amore di Dio e che perciò giungono a quella perfezione propria dell’«Altissimo bon Signore» che è il perdono; l’altra strofa è quella dove, più che della morte fisica ci si preoccupa della “morte seconda”, quella che può venire dalla perdita della vita spirituale, morte quest’ultima ben più pericolosa e dolorosa di quella fisica pietosamente portata da «Sora Morte corporale»». La più elevata preghiera è la richiesta di diventare uno strumento nelle mani di Dio. Come pregava Francesco, «Signore, fa di me uno strumento della Tua pace».

Non pregava di ricevere, ma di donare, di essere liberato dall’egoismo. Pregava di essere un servitore, il servo del servo del servo del servo del servo del servo. E Francesco pregava così: «Fai di me un umile servitore per elevare, aiutare e prendermi cura dei miei fratelli e delle mie sorelle in questo mondo». Risuonano e risplendono queste parole di luce, queste perle di nettare eterno, nell’opera di Francesco, servo del servo del servo del servo del servo del servo.