Andrà in stampa nei prossimi giorni un libro di testimonianze in ricordo di don Mario Santucci, a 13 anni dalla scomparsa. Tra i ricordi quello del suo successore come parroco di S. Maria delle Vedute a Fucecchio, don Giorgio Rudzky, di cui riportiamo integralmente il testo.
Conservo ancora vivido il ricordo di quando andavo a trovare don Mario negli ultimi anni della sua vita, quando era parroco a Santa Maria delle Vedute a Fucecchio. Pieno d’affetto mi prendeva sotto braccio e mi portava in sacrestia, dove spalancava il grande finestrone con le inferriate per mostrarmi l’ampia area prospiciente – piazza Salvo d’Acquisto – dove sarebbe stato realizzato tra 2015 e 2016 il nuovo oratorio. Lui – scomparso nel 2011 – lo “vedeva” già, e gli occhi gli brillavano. Una scena che a ripensarci oggi mi commuove e mi rammenta Mosè sul monte Nebo che, sazio di giorni e di vita, contempla da lontano la Terra Promessa dove sapeva, secondo il volere del Signore, che non avrebbe messo piede. In quegli occhi, che letteralmente si accendevano, in quel racconto vibrante che mi faceva, c’era tutto l’amore di don Mario alla Chiesa e ai suoi giovani, per i quali desiderava un luogo ricreativo, bello e sicuro. Don Mario è stato un grande sacerdote, un uomo che ha scritto una pagina importante nella storia della Fucecchio del secondo Novecento. Quando era cappellano in Collegiata, don Idilio Lazzeri, che era titolare della parrocchia, diceva spesso che a ben guardare non si sarebbe saputo dire chi era il parroco e chi il vice tra i due, tanto era lo zelo, l’impegno e l’abnegazione che don Santucci metteva nel servizio alla parrocchia e alla comunità.
I nostri primi contatti – avvenuti agli incontri collegiali del clero – risalgono almeno al 1994, anno del mio arrivo in diocesi. All’epoca non ci fu l’occasione per conoscerci un po’ più da vicino e stringere amicizia. Poi nel 2007, appena rientrato da una mia esperienza pastorale a San Marino durata dieci anni, il vescovo Tardelli mi inviò come parroco a Bassa, raccomandandomi anche di dare una mano al nuovo parroco di Santa Maria delle Vedute, don Mario appunto, da poco trasferitovi. La parrocchia era grande, le anime tante e don Mario era solo. Ricordo che la prima volta che ci siamo rivisti mi venne a prendere a Bassa e, come una sorta di novello Cicerone, mi portò a conoscere tutte le vie e le strade della sua grande parrocchia, raccontandomi ogni genere di dettaglio e aneddoto. Questo fatto mi sorprese: la parrocchia per lui era la famiglia e ci teneva a condividere con me tutto l’affetto che portava ad essa.
Il mio servizio in suo aiuto, all’epoca, si traduceva nella celebrazione di una Messa la domenica al mattino e poi nei giorni feriali, secondo il suo bisogno, e soprattutto nel dargli una mano col giro delle benedizioni alle famiglie nel tempo di Quaresima. Ricordo che inizialmente, nel conoscerlo, mi sembrava avesse un carattere chiuso, arcigno, ma era solo un’apparenza. Sotto la corteccia, se avevi la pazienza di stare in contatto con l’uomo, ti si rivelava una persona buona, sensibile, di grande ironia, aperta e disponibile verso tutti.
Certo, il cambiamento di parrocchia dalla Collegiata a Santa Maria delle Vedute all’inizio non fu indolore per lui. C’è una differenza sostanziale tra fare il cappellano e il parroco. Don Santucci si è trovato a fare i conti con aspetti di gestione amministrativa di una parrocchia cui non era abituato. Ma pian piano, presosi il tempo e colmato il vuoto, è venuto fuori con tutta la sua tenacia, diventando nel giro di breve tempo padre e guida per i suoi nuovi parrocchiani. Avendo a cuore le anime che il Signore gli aveva affidato, era perennemente tormentato da un rovello: cosa fare per i giovani di oggi? Quali azioni pastorali mettere in campo per riavvicinarli alla Chiesa? Subito dopo il Concilio, nell’animazione in parrocchia e nell’insegnamento a scuola, era divenuto un faro e un maestro per tante generazioni di ragazzi, che sapeva attirare con la sua passione travolgente. Negli anni si è speso tantissimo per loro.
Ma i tempi cambiano e anche i giovani – vittime di secolarismo e mondanizzazione – cambiano. Il pensiero di raggiungere le nuove generazioni con proposte di senso gli toglieva letteralmente il sonno. Aveva bisogno di confrontarsi spesso con il vescovo su questo. Lo amareggiava questa difficoltà della Chiesa a trovare linguaggi nuovi per parlare loro. Un altro motivo per cui mi è caro il ricordo di don Mario – lo scrivevo all’inizio – è dato dal fatto che con lui è divenuto concreto il progetto del nuovo oratorio. Un’idea, un sogno, che partiva da lontano, addirittura dagli anni ’60 con don Pietro Pasquinucci e poi con don Carlo Favilli. Un sogno che don Mario ha ripreso caparbiamente in mano, spendendosi in primo luogo per individuare il terreno dove costruire e impegnandosi poi per sciogliere tutti nodi burocratici e amministrativi volti a ottenere i permessi. Sarebbe toccato al sottoscritto, come successore di don Santucci, inaugurare il 1° ottobre 2016 il nuovo oratorio, che si è connotato fin da subito, oltreché come centro di aggregazione per la parrocchia, anche come punto di riferimento per tutta la comunità e il territorio. Ricordo anche con gratitudine e commozione quando a ogni Natale e Pasqua mi invitava a pranzo dalla sorella, e insieme a me invitava sempre un giovane prete indiano che veniva da Roma per aiutarlo nelle celebrazioni festive. Per vincere il mio ritegno ad accettare mi ripeteva sempre che nessun prete deve mai rimanere solo in un giorno di festa. E si arrabbiava al sapere che quel giovane confratello indiano, una volta rientrato a Roma la sera della festa, arrivando tardi avrebbe trovato la cucina dell’istituto dove era ospite chiusa, senza altra possibilità di procurarsi una cena. Per lui era inconcepibile una condotta simile in un collegio romano, la trovava ingiusta e antievangelica.
Una cosa non sopportava: la menzogna. Si ammantava di sacro sdegno e si arrabbiava in modo infuocato con coloro che chiedendo aiuto, tentavano di truffarlo, mentendo magari sulle loro reali condizioni di bisogno. Vedere la falsità nelle persone lo amareggiava molto. Amava curare la liturgia, teneva moltissimo al decoro e alla solennità delle celebrazioni. Aveva un rapporto indimenticabile con i bambini, che erano felicissimi quando c’era lui a fare catechismo, perché avendo educato generazioni di fucecchiesi, poteva raccontare loro aneddoti di quando erano i loro stessi genitori a essere seduti su quelle stesse panche.
Era una persona con una straordinaria capacità di critica e di giudizio. E poi – cosa risaputa – aveva un cervello finissimo, con un’attitudine intellettuale spiccatissima. Rammento che aveva chiesto alla nipote di aiutarlo a trasferire tutti i suoi libri in un appartamento che aveva trovato a Fucecchio in viale Buozzi, nel quale, una volta andato in pensione, sognava di ritirarsi per dedicarsi alla lettura e all’approfondimento delle tematiche che gli stavano a cuore. Purtroppo se n’è andato prima di questo traguardo.
Come suo successore mi resta, più di tutto, il ricordo della semplicità con cui stava in mezzo alla sua gente, oggi divenuta la mia gente… un sacerdote che appena accorciavi un po’ le distanze e gli diventavi più intimo, ti dava tanto di se stesso. La morte lo ha trovato in piedi, in piena attività. Ricordo che quel giorno del 2011, quando si sentì male, era impegnato alacremente nel giro delle benedizioni alle famiglie in vista della Pasqua. È morto il 7 aprile, esattamente il giorno in cui – secondo gli studiosi – è stato crocifisso Gesù. E anche questo forse è un segno.