Don Agostino Cecchin, una vita da romanzo

«Quel giorno che il Papa mi diede un pugno»

di Francesco Fisoni

Ci sono storie e cammini alla sequela di Cristo che assomigliano a romanzi d’appendice con colpi di scena a raffica… una di queste storie potrebbe essere quella di don Agostino Cecchin, classe 1935, parroco di Larciano Castello nella diocesi di San Miniato.

Era il 25 aprile 1984 quando, pochi mesi prima del suo 50° compleanno, don Agostino venne ordinato sacerdote dall’allora vescovo di San Miniato monsignor Paolo Ghizzoni. Una vocazione tarda la sua, che prima di quel 25 aprile aveva conosciuto una serie di svolte, cambiamenti e brusche virate. Originario della Marca Trevigiana, a 17 anni si trasferisce a Milano per entrare nei frati Ospedalieri di san Giovanni di Dio (i «Fatebenefratelli»), iniziando gli studi come infermiere.

Eserciterà per 12 anni la professione sanitaria alla clinica San Giuseppe. Ma è all’ospedale di Gorizia, dove è trasferito come caporeparto di medicina e chirurgia, che scatta una scintilla: una mattina, dopo un intervento su un ricoverato alcolista di origine slovena (don Agostino ne ricorda dopo molti anni ancora il nome!), arrivò il cappellano dell’ospedale, che senza tante ambasce fece per amministrare l’unzione degli infermi a quest’uomo, il quale collegando quel sacramento al momento della morte, si spaventò talmente tanto che rovesciò a terra il comodino accanto al letto, facendo fuggire il sacerdote. «È lì che è successo qualcosa – ci racconta don Agostino – e ho iniziato a chiedermi: se il prete fossi stato io, cosa avrei fatto? Rilevavo infatti che quel sacerdote, pur in buona fede, aveva toccato la paura di morire di quel poveretto, anziché il suo profondo bisogno di essere consolato. Ci sarebbe voluta più cura e un dialogo aperto, magari una confessione. Solo alla fine l’unzione degli infermi. Ebbene, esattamente quella domanda (“se il prete fossi stato io, cosa avrei fatto?”) è rimasta in me e mi ha scavato dentro per ben dieci anni, finché il desiderio di diventare sacerdote è diventato irresistibile».

Ma la strada per arrivare all’ordinazione è stata lunga. Nel giro di pochi anni il nostro Agostino rimbalza da una parte all’altra d’Italia: prima a Piacenza come infermiere personale dell’arcivescovo Ersilio Menzani, poi a Colle Val d’Elsa dove entra nel seminario delle vocazioni adulte, poi 3 anni a fare l’infermiere al Cottolengo di Torino, dove continua a studiare teologia. Poi ancora a Livorno e infine a Verona. In tutto questo percorso, si staglia quasi come un padre la figura luminosa di monsignor Ghizzoni, che don Agostino aveva conosciuto nel ‘61 a Piacenza. Sarà lui ad aiutarlo a superare le difficoltà legate al suo accesso ai corsi regolari di teologia, e sarà lo stesso Ghizzoni a volerlo come sacerdote nella diocesi di San Miniato. «Sono stato segretario, autista e infermiere del vescovo Paolo per cinque anni – ci dice -, l’ho assistito fino al giorno della sua morte. Un vescovo santo».

Don Agostino conserva intatto il buon umore e lo spirito gagliardo dei vecchi parroci di campagna, tanto che alla tenera età di 86 anni è ancora in prima linea come cappellano in ben tre ospedali (Empoli, Fucecchio e San Miniato), luoghi che non ha disertato neppure nei mesi più critici del contagio, assicurando tutti i giorni il suo servizio nei reparti Covid, con il sostegno spirituale a malati, medici, infermieri e a tutto il personale ospedaliero. Un vero «dottore delle anime» insomma. Gli chiedo quali frutti spirituali abbia visto maturare tra le corsie in questo anno di pandemia: «La mia è la presenza del Samaritano. C’è un grande bisogno di spiritualità e di preghiera in quei corridoi e in quelle stanze. Medici, infermieri e personale ospedaliero mi chiedono continuamente di pregare per loro, di benedirli, di passare col Santissimo. Qualcuno arriva perfino a rimproverarmi se un giorno non mi vede arrivare… Ormai sono parte della loro famiglia. Pensa che negli anni ho celebrato così tanti matrimoni tra infermieri, medici che ho perso il conto… e ho anche battezzato tanti loro figli. E quando parlo con i miei confratelli sacerdoti, dico sempre loro di inginocchiarsi – letteralmente – quando entrano in un ospedale, perché quella è terra benedetta. L’ospedale è un santuario dove si asciugano lacrime e dolori, dove si prega e ci si avvicina a Dio».

Gli chiedo della sua recente nomina a monsignore, lo scorso Giovedì Santo… Mi risponde divertito: «Era il 1° aprile, ero in Cattedrale insieme a tutto il clero diocesano per la Messa crismale e mi son trovato di fronte al fatto compiuto… Non era un pesce d’aprile! Mi sento un po’ come san Filippo Neri, che al momento della nomina cardinalizia fece volare in aria la berretta: “preferisco il paradiso”… il paradiso dei miei ammalati, senza i quali sarei un pesce fuor d’acqua, un “bronzo che rimbomba”. Ma ovviamente sono molto grato al vescovo Andrea e al Papa per questa nomina».

Non posso poi non accennare alla preziosa reliquia di san Giovanni Paolo II che conserva gelosamente… «Si ho una casula che mi regalò il 28 febbraio 1986, dopo che ebbi il privilegio di concelebrare messa con lui nella cappella privata in Vaticano. Sai, all’epoca ero segretario di monsignor Ghizzoni, che avevo accompagnato a Roma. Mentre il vescovo Paolo era impegnato alla Cei mi presentai in Vaticano e con sommo candore chiesi di poter dire messa l’indomani col Papa. Pensavo mi prendessero per matto. Mi fecero un sacco di domande, quasi un interrogatorio di polizia. Poi mi congedarono. La sera in albergo mi arriva una telefonata: “Don Agostino, se vuol dire messa col Papa, si faccia trovare domattina alle 5.30 davanti al “Portone di bronzo”. Stentavo a crederci. Non dormii tutta la notte. Il giorno dopo alle 6 di mattina celebravo io da solo insieme al Papa santo. Assistevano alla messa quattro suore. Sono passati 35 anni ma mi ricordo tutto come fosse ieri. Alla fine il Papa mi ricevette nel salone delle udienze. Lì trovai il coraggio per dirgli che, nonostante i miei 51 anni suonati, ero sacerdote da soli due anni: “Santità sono un prete novello!”. Il Papa rimase stupito, fece due passi indietro e mimando una mossa da pugile mi assestò un pugno sulla spalla, poi si avvicinò al mio orecchio e con grande affetto mi disse: “Prete novello sì, ma tanto vecchio…”. Non capita tutti i giorni di esser preso a pugni da un santo» – ride.

Salutandomi mi dice: «Bisognerebbe che un giorno scrivessi un libro sulla mia storia… quando sarò in pensione lo farò». Ribatto scherzando: «Mi sa che per te la pensione non verrà prima del Paradiso».