Otto giovani dei nostri territori hanno trascorso – grazie al progetto «Le 4 del pomeriggio» di Caritas – una settimana con i ragazzi detenuti della comunità fondata da don Claudio Burgio alla periferia di Milano, condividendo con loro ogni aspetto della quotidianità. Un’esperienza non semplice ma ricca di significato ed estremamente istruttiva. Abbiamo posto alcune domande al loro accompagnatore Tommaso Giani.
Per iniziare ti chiederei di dirci qualcosa sulla realtà di Kayros fondata da don Claudio Burgio.
«Kayros è una comunità penale minorile dove arrivano ragazzi che devono scontare pene per reati che vanno dallo spaccio alla rapina, dal furto alla violenza in famiglia o per strada. La maggior parte di loro ha tra i 16 e i 18 anni. È un’alternativa al carcere minorile. I ragazzi vi rimangono per il tempo stabilito dal provvedimento del giudice e in base anche al cammino che loro stessi decidono di fare da semi liberi e poi da liberi. È insomma un percorso educativo, che punta a restituire alla società persone con un progetto di vita un po’ più definito e stabile rispetto al deserto da cui provengono. In questo momento lì ci sono circa 40 ragazzi con diverse decine di educatori».
Come è nata l’occasione di visitarla?
«In seguito all’evasione dal carcere minorile Beccaria del Natale dello scorso anno. Sette ragazzini, molto ingenuamente, scapparono per andare a salutare le loro famiglie. In quella circostanza fu intervistato, in P qualità di esperto, proprio don Claudio Burgio, che oltre a essere il fondatore e direttore di Kayros, è anche molto legato al Beccaria. Da queste sue interviste è nata l’idea di contattarlo e poi di organizzare questa settimana».
Una caratteristica delle “4 del pomeriggio” è quella di far fare ai giovani esperienze a contatto con realtà limite: periferie esistenziali, contesti di emarginazione, ma anche realtà di speranza… Questa volta è stato più difficile del solito?
«Diciamo che non è stato facile. Era la prima volta che alcuni ragazzi esterni condividevano un’intera settimana di vita con i ragazzi della comunità, lavorando in cucina insieme a loro, frequentando i loro alloggi, svolgendo attività comuni. Qualcuno di loro ci ha anche accolto a denti stretti, anche se i più erano contenti della nostra presenza. I nostri 8 ragazzi sono stati bravi a non perdersi d’animo di fronte alle difficoltà, a stare anche nelle dinamiche delle relazioni più difficili, adattandosi a tutto. In un luogo di privazione di libertà, con minorenni che vengono da situazioni di grave di abbandono, insieme alle ferite si riesce fortunatamente a rintracciare anche la speranza. Non è certo un posto allegro, però è un posto dove si vede il lavoro che lo Stato fa – attraverso la comunità, attraverso don Burgio e gli educatori – per cercare di rimettere in carreggiata questi ragazzini. È stato un bel bagno di realtà per noi venuti dalla Toscana. Le storie di chi è lì, sono terrificanti, segnate da situazioni di grave povertà anche educativa. Tra loro non troverai mai il ragazzo della famiglia bene che a un certo punto, per capriccio, si mette a fare il bullo. Abbiamo invece trovato ragazzi figli di immigrati che provenivano da situazioni limite, che hanno preso a delinquere per disperazione. La speranza lì è vedere l’obbiettivo finale, il progetto che la comunità ha per loro. Soltanto alcuni riescono ad afferrare il salvagente che gli viene lanciato. Questo perché il percorso formativo della comunità, se preso sul serio, richiede molto impegno e umiltà. C’è chi non ha questa forza per mettersi in discussione e uscire dallo stereotipo del duro. Però alcune storie di speranza noi le abbiamo toccate, soprattutto tra i ragazzi più grandi».
Cosa hanno imparato i nostri giovani da questa esperienza?
«I nostri ragazzi si sono messi in gioco. Tra loro c’erano sei studenti delle scuole superiori che hanno scelto di affrontare questa situazione nel periodo delle vacanze. Insomma, sapevano che non era una gita scolastica e sapevano a cosa andavano incontro. La motivazione quindi c’era tutta. Credo che l’insegnamento più importante che si sono portati a casa, sia quello di aver imparato a sospendere il giudizio. C’è una frase che campeggia a caratteri cubitali all’ingresso della comunità: “Non esistono ragazzi cattivi”. È un invito a cercare il bello nell’altro anche quando questo bello è nascosto da tante macerie di errori, di abbandoni, di comportamenti anche molesti. Per capirci: in alcuni momenti non è stato per nulla semplice stare con i ragazzi della comunità. Il loro atteggiamento era sovente sopra le righe e in persistente conflitto con gli educatori. Ecco, era esattamente in quei momenti che ci era chiesto di ricordare quella frase».
Che tipo di legami restano tra giovani provenienti da realtà così diverse, dopo un’esperienza come questa?
«Di sicuro resta il legame del telefono. Ho visto che alcuni dei nostri ragazzi sono rimasti in contatto via chat con loro coetanei della comunità. Certo il legame di persona, dal vivo, quello mancherà, perché abitiamo a 400 km di distanza. In ogni caso c’è chi, tra noi, dice già di voler tornare, anche organizzandosi in proprio con don Claudio. Con la buona volontà, e un po’ di sacrificio, le amicizie si possono portare avanti anche a distanza vedendosi anche solo una o due volte l’anno. Le basi, attraverso questa bella settimana passata insieme, sono state messe».
«Caro diario…»: la mia esperienza con «Le 4 del pomeriggio»
Sole Benvenuti è una studentessa di Fucecchio che ha partecipato – nell’ambito del progetto “Le 4 del pomeriggio” di Caritas – al viaggio presso la Comunità penale minorile Kayros di Vimodrone (Mi). Nei giorni scorsi ci ha fatto giungere il racconto di questa sua esperienza consegnata a un’ideale pagina di diario. La pubblichiamo di seguito.
«Caro diario, oggi ti racconto della mia esperienza a Kayros, una comunità di Vimodrone, vicino a Milano, dove abitano ragazzi mandati dal tribunale dei minorenni per scontare una pena. Sono partita con il professor Giani, e altri 7 ragazzi, a bordo di un pulmino prestatoci dalla Misericordia di Pontedera, e abbiamo passato la prima notte nell’Oratorio del Sacro Cuore a Melzo. Ho deciso di partecipare a questo S progetto quando il professor Giani ne parlò nella mia classe, qualche mese fa. Ho da subito pensato che fosse veramente un’occasione speciale. Ho incontrato tanti ragazzi della mia stessa età (o poco più grandi) e ho avuto la possibilità di conoscere un pochino della loro storia: molti di loro avevano un passato difficile, con problemi riguardanti soldi, famiglia, dipendenze, reati, ecc. Abbiamo svolto varie attività insieme a loro: siamo stati in montagna, al lago, in piscina, abbiamo cucinato, giocato al biliardino, pulito o sistemato gli alloggi, partecipato a riunioni e dibattiti, sperimentando quindi tutti i giorni la loro vita. Oggi è l’ultimo giorno qua a Kayros.
Sinceramente mi sono affezionata molto a questo posto e alle persone che ci vivono, perché mi hanno trasmesso davvero tante emozioni e grazie a loro ho imparato l’importanza del rispetto reciproco, dell’autocontrollo, della comunicazione ma soprattutto ho capito di quanto sia fondamentale l’unione all’interno di un gruppo. Con il supporto di altre persone è più facile affrontare difficoltà o paranoie. Con loro mi sono confrontata su argomenti anche delicati, mi sono divertita giocando o scherzando, e posso dire di essere “cresciuta dentro” proprio perché tutte le persone con cui ho parlato mi hanno lasciato un pezzo di loro stesse. Come dice don Claudio Burgio, fondatore della comunità: “Non esistono ragazzi cattivi”. Tutti possono commettere degli sbagli quando la vita che vivono li mette davanti a situazioni complicate, ma ciò non deve impedire loro di potersi riscattare, ricevendo l’aiuto di cui hanno bisogno, per diventare persone migliori attraverso un percorso. Sono davvero grata di aver fatto questa esperienza, torno a casa con un po’ di nostalgia ma tanti, tanti bei ricordi. Alla prossima diario. Sole».