11 febbraio 2024 - XXXII Giornata Mondiale del Malato

La Giornata del Malato

L'omelia del Vescovo Giovanni e il Messaggio del Santo Padre

Si è celebrata a Ponte a Egola, domenica scorsa 11 Febbraio, nella memoria della Beata Maria Vergine di Lourdes, la Giornata Mondiale del Malato. Di seguito l’omelia del Vescovo Giovanni e il Messaggio del Santo padre Francesco sul tema: «Non è bene che l’uomo sia solo». Curare il malato curando le relazioni.


Omelia del Vescovo Giovanni

Questa VI domenica del tempo ordinario, coincide oggi con la Festa della Madonna di Lourdes, che apparve per la prima volta a Bernardette Subirous nella grotta di Massabielle l’11 febbraio 1858. Nel 1993 Giovanni Paolo II volle associare a questa memoria liturgica la celebrazione della Giornata Mondiale del malato, giunta quest’anno alla trentaduesima ricorrenza. Ogni anno ci viene proposto un tema su cui siamo invitati a riflettere, e il Santo Padre pubblica un messaggio che, spiegandolo, ci aiuta a vivere questa Giornata. Il tema di quest’anno riprende le parole della Genesi, pronunciate nella narrazione biblica da Dio, quando, dopo aver creato Adamo, si accinge a creare Eva: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). E commenta il Papa:

«Fin dal principio, Dio, che è amore, ha creato l’essere umano per la comunione, inscrivendo nel suo essere la dimensione delle relazioni. Così, la nostra vita, plasmata a immagine della Trinità, è chiamata a realizzare pienamente sé stessa nel dinamismo delle relazioni, dell’amicizia e dell’amore vicendevole. Siamo creati per stare insieme, non da soli. E proprio perché questo progetto di comunione è inscritto così a fondo nel cuore umano, l’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana».

Nella prima lettura abbiamo potuto comprendere la condizione tremenda dei malati di lebbra nel popolo ebraico, che per far fronte a questa malattia non aveva altra scelta che l’isolamento fuori dalla comunità: Comprendiamo in che abisso di solitudine e di miseria questo gettava coloro che già dovevano sopportare una infermità che poco a poco distruggeva il loro corpo.  Nel Vangelo l’incontro di Gesù con un lebbroso e la sua guarigione ci fanno vedere che per l Signore non c’è malattia o condizione umana che ci allontani dal suo amore, dal suo abbraccio.

Il Papa nel suo messaggio sottolinea come l’isolamento dei malati e dei deboli, degli anziani e degli infermi è purtroppo una realtà che anche oggi viviamo, anche nelle nostre società cosiddette sviluppate.

«Occorre tuttavia sottolineare – dice il Papa – che, anche nei Paesi che godono della pace e di maggiori risorse, il tempo dell’anzianità e della malattia è spesso vissuto nella solitudine e, talvolta, addirittura nell’abbandono. Questa triste realtà è soprattutto conseguenza della cultura dell’individualismo, che esalta il rendimento a tutti i costi e coltiva il mito dell’efficienza, diventando indifferente e perfino spietata quando le persone non hanno più le forze necessarie per stare al passo. Diventa allora cultura dello scarto, in cui «le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani» (Enc. Fratelli tutti, 18)».

Noi sappiamo che nella tradizione della Chiesa la lebbra, questa terribile malattia, ha assunto anche un significato simbolico: ci fa pensare a quella forza distruttiva, quella malattia – non del nostro corpo, ma del nostro spirito – che è il peccato. Il peccato ci rovina, ci consuma, ci rende brutti e malati dentro, perché ci porta a abbandonare la fonte della vita che è il Signore. Come fare per non essere vinti da questa malattia, molto più terribile di ogni infermità, e che, subdolamente, può prendere spunto dalla sofferenza del corpo, per allontanarci da Dio? Dobbiamo fare come il lebbroso del vangelo, in ginocchio davanti a Gesù dirgli: «Se vuoi puoi purificarmi». Affidarci a lui, che può rendere ogni croce fonte di speranza, trasformare le condizioni di morte in esperienza di vita e di pace. Ho conosciuto tanti malati che, offrendo sé stessi al Signore, offrendo come preghiera la loro infermità, mi hanno dato esempio della vera utilità della vita, che non consiste nel fare cose straordinarie, ma nel vivere l’ordinario obbedendo con amore a Colui che ci ama, a Cristo che condivide le nostre sofferenze per redimerci e renderci strumenti di redenzione. «Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio». I nostri dolori, uniti al suo dolore assumono questo valore salvifico per noi e per tutti.

Il Papa ci ricorda anche che siamo chiamati a prenderci cura dei malati ma ricorda anche che,

«prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni, di tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari –, col creato, con sé stesso. È possibile? Si, è possibile e noi tutti siamo chiamati a impegnarci perché ciò accada. Guardiamo all’icona del Buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37), alla sua capacità di rallentare il passo e di farsi prossimo, alla tenerezza con cui lenisce le ferite del fratello che soffreRicordiamo questa verità centrale della nostra vita: siamo venuti al mondo perché qualcuno ci ha accolti, siamo fatti per l’amore, siamo chiamati alla comunione e alla fraternità. Questa dimensione del nostro essere ci sostiene soprattutto nel tempo della malattia e della fragilità, ed è la prima terapia che tutti insieme dobbiamo adottare per guarire le malattie della società in cui viviamo». E conclude: «A voi, che state vivendo la malattia, passeggera o cronica, vorrei dire: non abbiate vergogna del vostro desiderio di vicinanza e di tenerezza! Non nascondetelo e non pensate mai di essere un peso per gli altri».

Adesso, offrendo noi stessi insieme al pane e al vino che presentiamo sull’altare, innalziamo la nostra preghiera per tutti gli infermi, per i nostri cari che sono andati dal Signore in questo anno e oggi in modo particolare per due amici dell’Unitalsi che ci hanno lasciato: Filippo Gabriele morto tragicamente in un incidente due giorni fa e don Giovanni Martini, che è andato al Padre proprio in questo giorno della Madonna di Lourdes, che ha amato tanto.

Li affidiamo a te Gesù, li affidiamo a te Maria.

 

+ Giovanni Paccosi


11 febbraio 2024 – Messaggio di Papa Francesco per la XXXII Giornata Mondiale del Malato

«Non è bene che l’uomo sia solo». Curare il malato curando le relazioni

«Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Fin dal principio, Dio, che è amore, ha creato l’essere umano per la comunione, inscrivendo nel suo essere la dimensione delle relazioni. Così, la nostra vita, plasmata a immagine della Trinità, è chiamata a realizzare pienamente sé stessa nel dinamismo delle relazioni, dell’amicizia e dell’amore vicendevole. Siamo creati per stare insieme, non da soli. E proprio perché questo progetto di comunione è inscritto così a fondo nel cuore umano, l’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza, spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria.

Penso ad esempio a quanti sono stati terribilmente soli, durante la pandemia da Covid-19: pazienti che non potevano ricevere visite, ma anche infermieri, medici e personale di supporto, tutti sovraccarichi di lavoro e chiusi nei reparti di isolamento. E naturalmente non dimentichiamo quanti hanno dovuto affrontare l’ora della morte da soli, assistiti dal personale sanitario ma lontani dalle proprie famiglie.

Allo stesso tempo, partecipo con dolore alla condizione di sofferenza e di solitudine di quanti, a causa della guerra e delle sue tragiche conseguenze, si trovano senza sostegno e senza assistenza: la guerra è la più terribile delle malattie sociali e le persone più fragili ne pagano il prezzo più alto.

Occorre tuttavia sottolineare che, anche nei Paesi che godono della pace e di maggiori risorse, il tempo dell’anzianità e della malattia è spesso vissuto nella solitudine e, talvolta, addirittura nell’abbandono. Questa triste realtà è soprattutto conseguenza della cultura dell’individualismo, che esalta il rendimento a tutti i costi e coltiva il mito dell’efficienza, diventando indifferente e perfino spietata quando le persone non hanno più le forze necessarie per stare al passo. Diventa allora cultura dello scarto, in cui «le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani» (Enc. Fratelli tutti, 18). Questa logica pervade purtroppo anche certe scelte politiche, che non riescono a mettere al centro la dignità della persona umana e dei suoi bisogni, e non sempre favoriscono strategie e risorse necessarie per garantire ad ogni essere umano il diritto fondamentale alla salute e l’accesso alle cure. Allo stesso tempo, l’abbandono dei fragili e la loro solitudine sono favoriti anche dalla riduzione delle cure alle sole prestazioni sanitarie, senza che esse siano saggiamente accompagnate da una “alleanza terapeutica” tra medico, paziente e familiare.

Ci fa bene riascoltare quella parola biblica: non è bene che l’uomo sia solo! Dio la pronuncia agli inizi della creazione e così ci svela il senso profondo del suo progetto per l’umanità ma, al tempo stesso, la ferita mortale del peccato, che si introduce generando sospetti, fratture, divisioni e, perciò, isolamento. Esso colpisce la persona in tutte le sue relazioni: con Dio, con sé stessa, con l’altro, col creato. Tale isolamento ci fa perdere il significato dell’esistenza, ci toglie la gioia dell’amore e ci fa sperimentare un oppressivo senso di solitudine in tutti i passaggi cruciali della vita.

Fratelli e sorelle, la prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia è la vicinanza piena di compassione e di tenerezza. Per questo, prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni, di tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari –, col creato, con sé stesso. È possibile? Si, è possibile e noi tutti siamo chiamati a impegnarci perché ciò accada. Guardiamo all’icona del Buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37), alla sua capacità di rallentare il passo e di farsi prossimo, alla tenerezza con cui lenisce le ferite del fratello che soffre.

Ricordiamo questa verità centrale della nostra vita: siamo venuti al mondo perché qualcuno ci ha accolti, siamo fatti per l’amore, siamo chiamati alla comunione e alla fraternità. Questa dimensione del nostro essere ci sostiene soprattutto nel tempo della malattia e della fragilità, ed è la prima terapia che tutti insieme dobbiamo adottare per guarire le malattie della società in cui viviamo.

A voi, che state vivendo la malattia, passeggera o cronica, vorrei dire: non abbiate vergogna del vostro desiderio di vicinanza e di tenerezza! Non nascondetelo e non pensate mai di essere un peso per gli altri. La condizione dei malati invita tutti a frenare i ritmi esasperati in cui siamo immersi e a ritrovare noi stessi.

In questo cambiamento d’epoca che viviamo, specialmente noi cristiani siamo chiamati ad adottare lo sguardo compassionevole di Gesù. Prendiamoci cura di chi soffre ed è solo, magari emarginato e scartato. Con l’amore vicendevole, che Cristo Signore ci dona nella preghiera, specialmente nell’Eucaristia, curiamo le ferite della solitudine e dell’isolamento. E così cooperiamo a contrastare la cultura dell’individualismo, dell’indifferenza, dello scarto e a far crescere la cultura della tenerezza e della compassione.

Gli ammalati, i fragili, i poveri sono nel cuore della Chiesa e devono essere anche al centro delle nostre attenzioni umane e premure pastorali. Non dimentichiamolo! E affidiamoci a Maria Santissima, Salute degli infermi, perché interceda per noi e ci aiuti ad essere artigiani di vicinanza e di relazioni fraterne.

Roma, San Giovanni in Laterano, 10 gennaio 2024

FRANCESCO

Clicca per scaricare il Messaggio