Venerdì 8 dicembre la nostra Diocesi ha chiuso l’anno giubilare a 400 anni dalla sua erezione.
Il «giubileo» – per molti sinonimo di anniversario, compleanno o cinquantenario – nasce su comando di Dio quando il popolo ebraico giunge nella terra promessa e comporta che ogni 50 anni si restituisca le terre agli antichi proprietari, vi sia remissione dei debiti materiali e liberazione degli schiavi. Questa festa veniva indetta col suono di un corno dal cui nome proviene proprio la parola «giubileo».
Nella Chiesa entra tardi; fu istituito per la prima volta nel 1300 da Papa Bonifacio VIII ed otteneva il perdono delle conseguenze dei peccati, attraverso la grazia dell’indulgenza, dono del Signore Gesù, colui che è venuto ad inaugurare il vero Anno di grazia, il tempo della salvezza definitiva. La stessa volontà di Dio, ridonare ai fedeli ciò che è promesso, assume lungo la storia della salvezza una lettura nuova: nei tempi antichi, in cui la promessa è una terra geografica, il giubileo permette di rientrarne in possesso; nella pienezza dei tempi, in cui la promessa è la terra del Cielo, ne ridona ai fedeli l’accesso. Appare chiaro che un giubileo non significa solo memoria di un evento storico ma promozione della santità della vita, infatti lo si chiama anche Anno santo. Ciò che si è concluso è stato un tempo di opportunità perché si rinnovasse la santità della vita nella nostra Diocesi. I riti e le liturgie giubilari hanno servito questo scopo ed i fedeli che hanno risposto a questo invito sono il «fine» per il quale abbiamo organizzato questo Anno.
La liturgia, come la vita, necessita di essere vista non a partire dalla fatica che comporta la sua organizzazione, ma dal suo fine, ovvero ciò che realizza: in essa si attua l’opera della nostra redenzione. La liturgia, quella giubilare come ogni altra, «ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili … tutto questo in modo tale, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati» (SC 2). Quando la si vive in questo modo, edifica tutti e chi presta un servizio in essa o la coordina, mentre lavora per aiutare l’incontro degli altri con il Signore, autore e perfezionatore della fede, lo incontra anch’egli e, in questo, condivide l’esperienza e il salario degli Apostoli.
Da questo sguardo, anche le fatiche organizzative vissute appaiono sotto un’altra luce: ci si accorge di aver lavorato per la crescita della santità di tanta gente e, finita l’organizzazione esteriore, quella crescita è rimasta. Alla fine di questo anno giubilare posso nuovamente testimoniare che chi abbraccia il Signore Gesù – come pure chi lavora per la sua causa – riceve cento volte tanto. Ringrazio i tanti, specie giovani, che hanno lavorato e lavorano perché ogni liturgia sia bella, sia fedele, non rabberciata o improvvisata, permetta a tutti di pregare e sperimentare come «nella liturgia terrena noi partecipiamo, per anticipazione, alla liturgia celeste che viene celebrata nella santa città del Cielo» (SC 8), dove un giorno entreremo definitivamente.
*Cerimoniere e responsabile dell’Ufficio per le celebrazioni vescovili