Dramma Popolare 2023

La Pira, speranza o utopia? Una riflessione da proseguire

+ Giovanni Paccosi

Il vescovo di San Miniato interviene sullo spettacolo andato in scena a San Miniato dal 22 al 26 luglio dedicato al salvataggio della Pignone sottolineando come il sindaco di Firenze fosse non un sognatore ingenuo ma un lottatore concretissimo e allo stesso tempo capace di dialogo e di amicizia con gli avversari.

Firenze 1953, 70 anni fa. Giorgio La Pira, il sindaco «santo». Un mondo lontano nel tempo, una cartolina agiografica? Il titolo «Dramma industriale»: piedi per terra, lavoro e sofferenza, lotta operaia e capitalismo, politica e economia. Giorgio La Pira, guardato in azione in quei giorni, fa affiorare domande: si può essere realisti e sognare insieme? Si può lottare per la giustizia e credere all’azione pacifica dello Spirito? La fede cristiana è placebo o è tensione? Un fatto veramente accaduto ci lancia una sfida su ciò che può accadere, se giustizia, pace, libertà, amore, non sono parole, ma il senso ideale del mondo. E ciò esige persone disposte a mettere tutto in gioco per questi ideali.

Mi sono sentito di sintetizzare, in queste brevi frasi, ciò che la proposta di quest’anno della Fondazione Istituto Dramma Popolare suscita in me, come comprensione e come aspettativa. Nei pochi mesi del mio ministero episcopale a San Miniato, mi sono reso conto che questa realtà culturale costituisce un ponte tra due dimensioni fondamentali in cui scorre l’esistenza e che spesso sono considerate scollegate o addirittura messe in opposizione: quella prossima e familiare della vita e dei rapporti sociali di una piccola città e quella degli interrogativi, le inquietudini, i sogni e gli ideali che agitano l’umanità a livello nazionale, europeo e universale. Come se le ragioni e gli ideali che afferma la singola persona nella sua comunità d’appartenenza, non fossero le stesse che possono cambiare la storia del mondo intero.

Dall’esperienza cristiana ho imparato che anche l’ideale più grande può diventare fattore di rivoluzione del già saputo e costituito, solo quando vive concretamente in un punto, in un luogo, in una comunità, in una persona: è la logica paradossale dell’incarnazione. In questo senso, da settantasette anni, il Prato del Duomo, alla fine di luglio, diventa un «ombelico» (l’onphalos del simbolismo arcaico), in cui accade qualcosa che, oltre a animare la vita culturale di San Miniato e della Toscana, getta raggi di luce che hanno come orizzonte il mondo. Quest’anno, nel paragone con un momento così specifico, come quello della crisi della Pignone del 1953 a Firenze, con dei protagonisti così originali, come Giorgio La Pira e lo stesso Enrico Mattei, ma anche tutto l’ambiente fiorentino di quegli anni, si aprono prospettive e punti di fuga universali riguardo ad aspetti fondamentali dell’esistere: il lavoro, la giustizia, la politica, la santità, la pace sociale.

Spero che da questo festival del Teatro dello Spirito fioriscano dibattiti e riprese a tutti i livelli, e auguro al Dramma Popolare che continui a essere luminoso appello per tutti a cercare insieme il senso del dramma quotidiano del vivere, a livello personale e sociale, locale e universale.

 

Ho riportato per intero le parole che ho scritto qualche giorno fa, ancora senza conoscere l’opera, come introduzione al libretto di scena del «Dramma industriale. Firenze 1953», e vorrei dare avvio a queste mie riflessioni sulla messa in scena a cui ho potuto assistere, nella bellissima cornice della Piazza del Duomo di San Miniato il 21 luglio scorso proprio dalle ultime righe.

Quest’opera, come tutte le precedenti, sempre opere prime, originali, che l’Istituto del Dramma Popolare propone ogni luglio dal 1946, nasce per aprire dibattiti, per sfidare. Devo dire che l’autore del testo teatrale, Riccardo Favaro, e il regista, Giovanni Ortoleva, sono stati capaci di realizzare un’opera di grande respiro e hanno offerto la vicenda del salvataggio della Pignone e delle 2000 famiglie dei suoi lavoratori come un avvenimento dalle dimensioni universali. Anche la scena, con un prato che la rendeva quasi un bozzetto del pianeta intero, la grande tavola intorno alla quale tutti i personaggi girano, che ho colto come simbolo del dialogo e del confronto, le figure inanimate, marionette simboliche di una società impersonale, la scelta di un personaggio, «Lei» che lega i momenti cercandone il senso, mi è sembrata straordinaria.

Certo, per me, che ho conosciuto La Pira e l’ho ammirato per la paradossale congiunzione in lui della spiritualità più elevata e della concretezza più terrena, è rimasto un sapore non risolto: ho apprezzato il desiderio di mostrare che Giorgio La Pira fosse «un pesce fuor d’acqua» in un ambiente in cui la logica del profitto si avviava a prevalere sulla giustizia sociale. Questo tuttavia non lo rendeva ingenuo sognatore, ma un lottatore concretissimo dentro le circostanze e insieme capace di dialogo e di amicizia con gli avversari.

Forse, ho pensato, se quest’aspetto di concretezza del suo cristianesimo sociale fosse stato più sottolineato e palesato, anche lo sguardo al presente e al futuro, alla possibilità di una società più giusta, che ho percepito quasi rassegnato, specie nel monologo finale di Mattei, avrebbe potuto divenire un messaggio di speranza: uomini e donne, certi come Giorgio La Pira del valore della persona umana, possono cambiare la storia anche quando sembra già scritta.

Ma questi miei pensieri li propongo a un dibattito, che proprio perché il testo offre una sua lettura originale e profonda, diventa interessante prosieguo della rappresentazione. La messa in scena teatrale, la potenza della recitazione di tutti i protagonisti, il valore intrinseco del tema proposto, la bellezza letteraria del testo, poetico, onirico e politico insieme, dentro la ricchezza del Festival con il programma delle rappresentazioni e letture collegate, rendono quest’evento un momento unico di teatro, in Italia e non solo, che attualizza l’ideale degli iniziatori dell’Istituto del Dramma Popolare, grazie all’infaticabile attività della sua direzione e di tutti i collaboratori e patrocinatori a cui va la gratitudine mia e, ne sono sicuro, di tutti.

Foto di Danilo Puccioni