Don Momigli a Treggiaia

«La chiesa nella città degli uomini»

di Donatella Daini

Immersi nel silenzio che circonda il santuario della Madonna di Ripaia, sopra Treggiaia e da lì allargando lo sguardo a 360 gradi sui paesi e le città sottostanti, i credenti della Valdera si sono interrogati sulla vita delle persone, sulle relazioni che intercorrono fra esse, sullo stile di vita che conducono gli esseri umani, gli uomini, le donne, i lavoratori, gli studenti, gli italiani e gli stranieri, cercando di pensare nuove idee, proposte e soluzioni per «far convivere le diversità ed integrarle in una prospettiva di bene comune», come ha detto l’organizzatore e presentatore di questo incontro Claudio Guidi. Ad aiutare a portare avanti una riflessione così profonda che presuppone la capacità di mettersi in discussione è intervenuto, ospite della serata dal titolo «Guardare la città con occhi divers»”, don Giovanni Momigli, ex sindacalista ed ex imprenditore, direttore dell’ufficio diocesano per la Pastorale sociale ed il lavoro della diocesi di Firenze e autore del libro «La Chiesa nella città», al quale non potevamo non fare qualche domanda, prima ancora che iniziasse l’incontro.

Don Momigli che cosa le suggerisce la frase «uno sguardo dall’alto»?

«Lo sguardo dall’alto è altamente insufficiente, siamo inondati dai numeri delle statistiche, conseguenti da visioni generali e generiche. Finché abbiamo le percentuali dei poveri italiani o stranieri, non ci rendiamo conto delle esigenze e delle problematiche, ma se abbiamo il coraggio di sostituire i numeri con i volti delle persone, allora andremo a fondo delle questioni, trovando una soluzione adatta al caso. Non possiamo adottare la stessa proposta, anche se per lo stesso problema su territori diversi, che hanno una mentalità e una cultura diverse».

Lei è direttore dell’Ufficio per la Pastorale sociale e del lavoro della sua diocesi, cosa pensa delle tutele dei lavoratori che si sono perse?

«Occorrono tutele adeguate al lavoro che cambia. Un dettaglio molto importante: coloro che hanno fatto esperienze associative o di servizio civile trovano più facilmente lavoro, perché oltre alla formazione tecnica hanno imparato a lavorare in gruppo e a sapersi relazionare. Bisogna passare dalla protesta alla proposta, che è comunque sempre una forma di protesta». Don Momigli, la Chiesa rispetto alle donne, alle loro rivendicazioni e più specificatamente al femminismo, è stata in parte molto titubante, anzi alcuni non vogliono sentir parlare di pari opportunità, cosa pensa in merito? «San Paolo, nella lettera ai Galati, capitolo 3, versetto 28 scrive: “Non c’è giudeo, né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Non valorizzare questa pari dignità e quindi opportunità significa sminuire il messaggio del Vangelo».

In un mondo dove l’offesa e l’aggressione sono sempre dietro l’angolo, specialmente nel web, come possiamo ricomporre le fratture e le incomprensioni?

«Usando le parole ponte, possiamo accorciare le distanze, ricomporre le fratture e i dissidi. Oggi esiste un sé vuoto che trova la sua forza nell’opposizione e nell’aggressione, i social non hanno inventato il linguaggio dell’offesa, ma lo hanno facilitato». «Il cristiano non può essere mediocre – ha dichiarato poi don Momigli durante il suo intervento – la mediocrità è assenza di passione. Dobbiamo riscoprire il senso della gratitudine rispetto a ciò che ci ha preceduto, per esempio ogni sindaco e ogni parroco quando vengono investiti del loro nuovo ruolo in un comune e in una parrocchia, sembra che prima di loro non sia stato fatto niente».

Don Momigli ha parlato anche delle sentenze europee relative ai simboli religiosi nei luoghi pubblici, sentenze che hanno snaturato il significato religioso, mantenendo solo quello culturale.

«Dobbiamo smettere di parlare di accoglienza – ha proposto il sacerdote a proposito dell’immigrazione altrimenti la gente pensa che si voglia permettere tutto a tutti. Bisogna guardare i volti di coloro che arrivano con i loro problemi e necessità, ma anche i volti di coloro che vivono qua, quindi degli italiani, anch’essi con le loro difficoltà. Non dobbiamo creare dei ghetti, come succede in molte città, ma tutti gli stranieri devono vivere mescolati con gli italiani, altrimenti non ci sarà mai una vera integrazione. È necessaria un’interazione fra le persone, che presuppone il rispetto per gli altri, ma il problema dell’interazione fra le persone si pone anche all’interno delle parrocchie».

Nel suo libro «La Chiesa nella città», don Momigli elabora una proposta: sviluppare il pensiero e favorire la possibilità di riflessione attraverso laboratori di impegno socio-culturale dove cattolici e non possano elaborare soluzioni concrete al di la delle etichette politiche e religiose. «Noi cristiani dobbiamo essere “l’ambulanza della storia” – ha concluso don Giovanni – ma dobbiamo anche e soprattutto risolvere il problema in modo tale che non occorra più l’ambulanza. La fede infatti non è qualcosa di intimistico, ma ha un preciso risvolto sociale e politico nella sua applicazione».