Rispetto alla prima edizione del 2004, il nostro libro diocesano dei canti ha due novità che lo rendono prezioso. Siamo un po’ tutti curiosi e a uno che ha un libro in mano gli vien voglia di sfogliarlo. Se lo fate, anche velocemente, vedrete che un notevole spazio è dato al canto gregoriano. Questa è la prima novità. Prevedibile, la reazione: «Ma voi siete matti! Questa è roba da medioevo». E lo si richiude subito. Resistiamo a questa tentazione. Vedrete che questo libro è una grande ricchezza.
Allora, il gregoriano. Primo motivo. La liturgia attuale è figlia del Concilio Vaticano II. E questo Concilio ha chiesto il canto gregoriano. Come sappiamo, è stato un evento fondamentale per la Chiesa moderna, che ne è uscita rinnovata. Rivoluzionario è stato il ruolo dato al popolo di Dio nella liturgia. La liturgia fu sentita subito da tutti i padri conciliari come la questione più urgente da discutere. E difatti, il primo documento approvato fu quello che la riguardava. Il 4 dicembre 1963 (60 anni fa giusti) fu promulgata la costituzione apostolica Sacrosanctum Concilium. Pensate: fu approvato con celerità e quasi all’unanimità: su 2.152 padri conciliari i contrari furono soltanto 5.
Al n. 112 dice: «La tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore» e al n. 116: «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana… A parità di condizioni, ad esso si riservi il posto principale». Ovviamente, nel nostro libro i canti in italiano sono la maggior parte. Su 714 in totale, quelli gregoriani sono 134.
Il secondo motivo della presenza del gregoriano lo dice la storia. Il gregoriano nasce nella culla del Mediterraneo e dalle sue culture. È la base della musica occidentale in senso assoluto: senza gregoriano, niente polifonia, niente musica strumentale colta (il canto popolare profano è un filone a parte). In maniera brutale, ma vera, possiamo dire che ignorare il gregoriano è ignorare le nostre radici musicali, liturgiche ed ecclesiali.
L’altra novità del libro è che ogni canto ha la sua notazione. Qualcuno penserà che le note sono tempo perso, che ostacolano la lettura delle parole. Non è così. Un libro dei canti, oltre ad essere un sussidio, ha una funzione pedagogica: deve incuriosire, stimolare, insegnare, aiutare a crescere.
Le note aiutano a cantare meglio secondo il testo originale, a non storpiarlo, aiutano ad andare a tempo; e quindi ci fanno restare fedeli e alle parole e alla musica, come nella liturgia dobbiamo essere fedeli alle regole della Chiesa, alle rubriche. Avere le note davanti aiuta ad eseguire il canto com’è stato scritto. Esiste un’esegesi anche della musica oltre che della Bibbia. In concreto, significa che un canto va eseguito come l’autore l’ha composto, senza modificarlo. Se non piace, non lo si corregge: se ne sceglie un altro. Possiamo dire che le note aiutano ad essere artisticamente seri, credibili.
Qual è lo scopo ultimo di questo libro? Fare in modo che l’assemblea, cantando unita, formi una voce sola, ch’è segno di «un cuor solo e un’anima sola» (Atti degli apostoli 4,32). Così il popolo di Dio si deve presentare a lodare il Signore: unito.
Che il canto sacro nella liturgia sia importante ce lo dicono due esempi, a cui siamo troppo abituati e che non notiamo quasi più: sono due preghiere eucaristiche. La seconda finisce così: «Di tutti noi abbi misericordia, donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, san Giuseppe, suo sposo, gli apostoli, e tutti i santi che in ogni tempo ti furono graditi, e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua lode e la tua gloria».
La quarta, che non si usa quasi mai, termina così: «Padre misericordioso, concedi a noi, tuoi figli, di ottenere con la beata Maria Vergine e Madre di Dio, con San Giuseppe, suo sposo, con gli apostoli e i santi, l’eredità eterna del tuo regno, dove con tutte le creature, liberate dalla corruzione del peccato e della morte, canteremo la tua gloria, in Cristo nostro Signore, per mezzo del quale Tu, o Dio, doni al mondo ogni bene».
Chiediamoci perché la Chiesa insiste su questo cantare in paradiso. Perché il canto coinvolge il corpo, la mente, la tecnica, il cuore, l’ispirazione, la fede ossia tutte le forze dell’uomo. Esattamente come l’amore: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze…» (Dt 6,5). Gesù aggiunge la mente (Mt 22,37). Per questo, il nostro amore in paradiso si esprimerà col canto. Questo è il motivo per cui tante chiese sono state decorate o affrescate con la visione del paradiso, affollato di angeli che fanno musica e santi gioiosi. Penso alla Cantoria di Luca Della Robbia (1431-1438) a Firenze, Museo dell’Opera del Duomo; agli Angeli musicanti di Melozzo da Forlì (1472), conservati alla Pinacoteca Vaticana oppure lo stupefacente Concerto di angeli di Gaudenzio Ferrari nella cupola di S. Maria dei Miracoli a Saronno (1534-36), dove si contano 56 strumenti musicali!
Concludendo con una battuta, in paradiso si canterà: o impariamo ora o impareremo in purgatorio! In paradiso si canta e cantare è un paradiso. Vi saluto con questa prospettiva grandiosa sul futuro che ci aspetta. S. Cecilia ci benedica tutti.