Riflessioni

Il migrante e il rifugiato

di don Angiolo Falchi

La Giornata per il migrante e il rifugiato, giunta alla sua 107ma edizione, si celebra quest’anno in un clima ancora più complicato del solito a causa dalla questione dell’Afghanstan; ultima sciagura ad essersi aggiunta ai già innumerevoli conflitti irrisolti presenti sul pianeta. Da sempre l’umanità è in mobilità; ma quando questa mobilità è causata da guerre, da occupazioni indebite, da vere e proprie invasioni territoriali, che costringono le popolazioni residenti a fuggire dalla propria terra per mettere in salvo la vita propria e quella della propria famiglia, la cosa si fa veramente drammatica e insostenibile.

Papa Francesco nel suo messaggio diramato in occasione di questa giornata, c’invita a cambiar registro, e si augura che, dopo la pandemia che ha funestato tutto il mondo, l’umanità intera non torni ad essere quella di prima, bensì, impari che non ci si salva da soli, e che non si divida l’umanità in due parti: “noi” e gli “altri”, ma si amplifichi al massimo solo il “noi”. In effetti il genere umano è uno. Si differenzia dal genere animale, vegetale, minerale. Ma l’uomo, a qualunque cultura, latitudine, religione appartenga, ha la stessa dignità e deve poter godere degli stessi diritti, specialmente quelli essenziali, come quelli alla vita, all’alimentazione, alla salute, alla scuola, al lavoro… Ha anche il diritto alla pace, alla casa, al territorio, a intessere relazioni con tutti e a concorrere al bene di tutti. Tutto questo, naturalmente, non viene da sé. È il frutto di un impegno lungo e profondo delle singole persone e delle famiglie, delle istituzioni pubbliche e di quelle internazionali. Passa attraverso scelte politiche dei parlamenti e dei governi, che potranno aprirsi a questi valori, nella misura in cui i componenti di questi organismi nazionali ed internazionali saranno imbevuti di questi principi. Di qui il lavoro di annuncio che la Chiesa ha da svolgere in questo tempo tra tutti i suoi membri, perché si aprano sempre più ad una “cattolicità”, cioè ad una universalità fatta non solo di parole, ma da atteggiamenti concreti. Chi si dice “credente” deve essere anche “credibile” ad ogni livello (personale, familiare, professionale, istituzionale), altrimenti è soltanto una “facciata occasionale”.

«Non riduciamo la croce – ha detto papa Francesco in un discorso nella recente visita in Slovacchia – ad un oggetto di devozione, tanto meno a un simbolo politico, a un segno di rilevanza religiosa e sociale». Bisogna imparare a «passare dai pregiudizi al dialogo, dalle chiusure all’integrazione». Soprattutto il Papa ha messo in guardia dalla «grande tentazione» di aspirare ad un cristianesimo da vincitori, trionfalistico, che abbia rilevanza ed importanza, che riceva gloria e onore. «La Croce – ha spiegato Francesco – esige una testimonianza limpida. Non è una bandiera da innalzare, ma la sorgente di un nuovo modo di vivere». In sostanza lo stile di vita delle Beatitudini. «Il testimone che ha la croce nel cuore e non soltanto appesa al collo – ha rimarcato il Santo Padre – non vede nessuno come nemico, ma tutti come fratelli e sorelle per cui Gesù ha dato la vita». Vogliamo raccogliere questo pressante appello di Papa Francesco per rendere le nostre comunità cristiane sempre più “cattoliche”, aperte all’accoglienza, alla solidarietà, liberandoci sempre più dai pregiudizi e dalle paure. Solo l’amore costruisce e fa nuove tutte le cose.