Giovedì 29 settembre, a San Romano, si è aperto l’anno di pastorale giovanile. A tenere una conferenza sul tema «Chiamati a scegliere» è stato invitato don Michele Falabretti, prete bergamasco, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile, al quale abbiamo rivolto alcune domande.
Don Michele, il vescovo di Livorno, monsignor Simone Giusti, nella sua lettera pastorale del 2017 indirizzata ai giovani, ha scritto con coloritura d’accenti che «i giovani sono splendidi e capaci di fare cretinate incredibili. Eroi nella solidarietà e primi attori nel narcisismo: tutto contemporaneamente». Espressione che in un baleno racconta il tumulto dei vent’anni. dal suo punto di osservazione cosa può dirci del mondo giovanile? Quali sfide pone la loro stagione anagrafica?
«I giovani oggi vivono situazioni molto faticose, ma bisogna stare attenti a non “lisciarli” troppo. Per crescere, i ragazzi hanno bisogno di essere provocati e di ricevere fiducia, per non sentirsi inadeguati. Se manca la provocazione e l’esempio degli adulti si crea un vuoto grave. I giovani sono al tempo stesso splendidi e limitati nelle loro espressioni, lo sappiamo, ma il loro essere proiettati verso la vita è una cosa che stupisce sempre».
Che cosa cerca e vuole oggi un giovane? Si rende partecipe del cambiamento d’epoca che stiamo vivendo o si rifugia nell’indifferenza e nel disinteresse?
«Credo che un giovane cerchi quello che tutti abbiamo cercato nella vita: una ragazza, un ragazzo da amare, un lavoro attraverso il quale esprimersi, un’identità della propria persona, una famiglia. Interessante che i giovani dicano che credono molto nella famiglia e ne vorrebbero una propria. Il problema è che queste cose che abbiamo cercato tutti nella vita, oggi faticano ad avere un’identità precisa in una società profondamente cambiata».
Lei parla spesso della necessità di una pastorale della “cura” capace di offrire importanti margini di progettualità alla pastorale dei giovani. Ci può spiegare questo concetto?
«Accompagnare i giovani nasce come gesto di restituzione nessuno di noi è diventato grande da solo, quello che siamo quello che ciascuno di noi é lo deve al fatto che qualcuno si è preso cura di noi. Ora, questa cura richiede soprattutto che una comunità si metta in gioco su come fare spazio ai propri giovani, su come accompagnarli, su come renderli protagonisti di esperienze che possano far crescere: questa è la progettualità, non programmare la vita ma fare spazio ai giovani».
Come deve essere un buon educatore? Cosa gli si può e gli si deve chiedere?
«Mi colpisce quel passaggio nella Bibbia dove il Signore dice scegliendo Davide che Dio non sceglie le persone capaci ma rende capaci le persone che sceglie. Un buon educatore deve sentirsi chiamato a un compito. Non è lui che lo fa perché si sente migliore degli altri, è la comunità che gli chiede quel servizio. Un buon educatore deve dare l’anima, il corpo. Quando un buon educatore vuole bene ha già fatto tre quarti del suo lavoro».
Parliamo degli oratori parrocchiali e della loro offerta educativa. L’oratorio com’è visto e vissuto oggi? Ha ancora una sua forza attrattiva e una sua valenza?
«Sono anni che vado in giro per l’Italia e faccio il tifo e sponsorizzo l’idea dell’oratorio, perché l’oratorio è una casa, è un fare comunità, è un non permettere che le persone crescano da sole o siano lasciate a se stesse. L’oratorio oggi deve rispondere a esigenze diverse ma le forme dell’oratorio possono cambiare tranquillamente se mantengono questa dimensione fondamentale che i grandi educatori nella storia avevano intuito: la vita di comunità che sostiene la vita di ciascuno».
A che punto è, secondo lei, la Chiesa nella comprensione del complesso universo giovanile e come il Sinodo del 2018 ha favorito questa comprensione?
«Ho la sensazione che la Chiesa sia indietro nella comprensione di se stessa anzitutto perché le liti, le discussioni troppo aspre troppo da nemici troppo contrastanti ci dicono che noi non sappiamo più fare chiesa. Possibile che vi siano interpretazioni cosi diverse del Vangelo? La Parola è una sola. C’è un male profondo che ha preso il cuore di tutti gli uomini di oggi: l’individualismo e questo non ci mette in una dimensione di fede, perché la dimensione della fede non è costruire la mia chiesa o la mia idea di chiesa, ma costruire la chiesa che il Signore ci chiede di vivere oggi dentro a questo tempo».