47° Convegno Catechistico Diocesano

«Fabbricare ali per il volo»

di Francesco Fisoni

L’annuncio della fede e il suo approfondimento nella catechesi sono chiamati a percorrere nuove vie, a comunicare una fede che è incontro personale, ragione di vita, trasformazione del mondo. Tutto questo richiede un linguaggio adatto: la narrazione», queste le parole con cui don Sunil Thottathussery ha presentato l’annuale Convegno catechistico diocesano, tenutosi lo scorso 6 settembre a San Miniato Basso.

«Il racconto è la chiave d’oro per l’annuncio e la testimonianza» ha detto suor Anna Maria Gellini dell’Ufficio Catechistico bolognese, voce nota di Radio Mater, che ha sapientemente catturato l’attenzione dell’uditorio, scandagliando le dimensioni essenziali della comunicazione: «Nella passione del narratore risiede la magia del racconto che diventa un contagio di sentimenti, di emozioni, di vita». La relatrice ha ricordato come lo stesso Credo storico d’Israele (Dt 26,5-9) sia un racconto delle meraviglie compiute da Dio in favore del suo popolo: «Mio padre era un Arameo errante…». Pertanto, ha sottolineato, «nel raccontare chi è Dio non dobbiamo inventarci chissà cosa». Bisogna partire imprescindibilmente dalla meditazione del testo, per farlo nostro, quindi porgerlo a partire da una situazione sufficientemente familiare, usando il discorso diretto e un linguaggio concreto, capace di coinvolgere tutti e cinque i sensi dell’interlocutore. L’assemblea è stata poi coinvolta in un laboratorio sulla pagina evangelica del Buon Pastore, resa concreta e personale attraverso un efficace metodo di immedesimazione. Infine, un richiamo a recuperare, prima, durante o dopo l’attualizzazione, la centralità della Parola di Dio. Per questo, a conclusione dell’attività, suor Anna Maria ha proposto una sua lettura del salmo 23 («Il Signore è il mio pastore») “tradotto” in un linguaggio comprensibile anche ai bambini.

Tempo poi per una rapida ma sapida cena, cemento di koinonia, che subito padre Bernardo Gianni, abate di San Miniato al Monte, prestigio e allure da patriarca biblico, riprende per mano l’uditorio, corroborandolo con concetti densi e potenti. Attacca con la vertigine teologica della prima lettera di Giovanni, sulla scorta della quale chiama i catechisti a interrogarsi con schiettezza sull’autenticità della loro fede e sulla radice misteriosa e teologale dell’annuncio e della catechesi. Perché l’unica narrazione di cui si può esser catechisti è il personale incontro con la persona di Gesù Cristo. Ed è esattamente a questo livello che si colloca – per padre Bernardo l’esperienza “ecclesio-genetica”, ossia la nascita della Chiesa come mistero di comunione. Se non c’è questa consapevolezza, tutto si riduce a comunicazione di nozioni e contenuti dottrinali che poco incidono nelle vite delle persone. Proclamare la Parola, spezzarla per i “rudibus”, mette in gioco tutto di noi, il nostro corpo, il nostro pensiero, la fantasia e la creatività. La narrazione che il Signore Gesù consegna di se stesso a ciascuno non può che essere recepita nell’integralità del nostro essere, pena il suo tradimento. Talvolta viene rimproverato a coloro che annunciano, una sorta di riduzionismo cerebrale dell’esperienza di fede, come se l’incontro col Signore Gesù non avesse fecondato primariamente il mondo psichico di chi fa catechesi. E qui l’abate fiorentino ha toni accorati: «Ma lo Spirito ci vuole vangelo vivente, Trinità vivente e noi lo siamo già come ci ricorda l’antropologia paolina: spirito, anima e corpo. Occorre allora tornare a gridare questo mistero della persona, quale gloria vivente di Dio, proprio in tempi in cui l’uomo è ridotto a macchina quasi esclusivamente organica che ha valore finché funziona. Quando comunicate la Parola del Signore, voi propiziate eventi pasquali nella vita di coloro che sono in ascolto. In questo modo l’evento catechetico fornisce lenti per una lettura sintetica della storia presente alla luce della salvezza. E allora il nostro raccontare Gesù deve essere sintetico, ma efficace, di tutto quello che l’evento pasquale genera in termini di speranza», soprattutto quando si sa di parlare a una generazione di giovani che sono orfani di speranza.

Di grande suggestione anche le riflessioni sulla storia in ordine alla salvezza: oggi più che mai abbiamo bisogno di riscoprire il gusto della narrazione storica. Abbiamo paura della storia, ce ne difendiamo e l’unica modalità che abbiamo per confrontarci con essa è quella superficiale indigestione di notizie che celebriamo quotidianamente sui nostri smartphone. Questa abitudine sta però attuando in noi una mutazione antropologica. «Perché il fulmineo arrivo di queste micro e macro notizie, fa percepire una storia sfilacciata, indisponibile a una lettura di sintesi. La vicenda del Signore Gesù al contrario ci addestra alla storia come narrazione gravida di speranza. Di tutto ciò occorre essere avvertiti proprio quando i nostri interlocutori sono i ragazzi, che sono il bene più prezioso che abbiamo. La nostra vita va verso il futuro e la Chiesa è uno dei pochissimi luoghi in cui resiste la consapevolezza che tutto quello che noi siamo è in virtù di ciò che ci precede. È come se il presente che noi viviamo fosse l’esito di una gravidanza portata avanti nel corso dei secoli per la fecondità dello Spirito Santo. In questo la Chiesa ha saputo essere, ed è, utero e madre nel tempo e nello spazio della storia salvifica. E allora i catechisti devono essere come degli ostetrici, chiamati a rendere concretamente tangibile nel cuore di chi ascolta, l’inedita possibilità di vita nuova».

Oggi che i sociologi ci dicono che ciò che spaventa di più la gente è il futuro, noi abbiamo allora l’obbligo di generare una traditio, di configurare il tempo come un bellissimo laboratorio dove il futuro sta anche nelle mani della nostra creatività responsabile, quella che Mario Luzi chiamava «sostanza di futuro». Per declinare questa prospettiva padre Bernardo ha evocato proprio i versi con cui Luzi nel 1997 ha celebrato il settimo centenario della costruzione della cattedrale di Santa Maria del Fiore, facendo parlare la chiesa madre di Firenze, conferendogli voce di memoria viva e speranzosa di tutto quello che in quel tempio (vale per tutte le nostre chiese) si è ascoltato, celebrato e vissuto: «“Vorrei fossimo uniti tutti insieme, figli miei, per essere una roccia su cui possa posare il piede chi arriva e prendere slancio per il volo”. Immagine bellissima: se la Chiesa smette di insegnare a prendere il volo ai suoi figli, non ha più senso di esistere». Questa prospettiva ci autorizza allora a dire che lo scopo della Chiesa è la crescita degli uomini e che i catechisti sono tali per far crescere chi ascolta. Quello del catechista è un ruolo propiziatorio nei confronti di tutti coloro che aspettano un segno che apra prospettive di crescita e di futuro. L’invito dell’abate fiorentino ai catechisti è dunque quello di diventare vangelo vivente. Questa la bellezza della fede e della Chiesa, la sua immancabile fragilità ma anche il suo vertiginoso di mistero.

L’appello conclusivo di padre Bernardo, in un periodo in cui anche la Chiesa sembra incepparsi in divisioni da tifoseria calcistica, è all’unità, a questo proposito rammenta emblematicamente un passo dallaEvangelii gaudium in cui Francesco cita papa Ratzinger: «Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, quindi con una narrazione, con una persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Una riconferma dell’idea che la nostra catechesi non può non coincidere con ciò che il Signore ha fatto scaturire nei nostri cuori, perché tutto quanto nelle nostre esistenze tiene in vita il rapporto con Dio non è più solo nostro ma deve essere anche raccontato, donato. E laddove non è possibile arrivare con la versatilità della parola, può bastare anche il silenzio di un abbraccio per trasmettere l’esperienza trasformante del Signore. Solo così le nostre catechesi torneranno – parafrasando ancora Luzi – ad essere laboratorio infuocato, officina delle anime, dove si riparano i rottami e dove soprattutto si fabbricano ali per il volo.