Domenica scorsa il suo ingresso nelle tre parrocchie

Don Udoji parroco di Montopoli, Marti e Capanne

L'omelia del Vescovo Andrea

“Canta e danza, don Udoji!. ” Lo ha ripetuto più volte il Vescovo al termine della sua omelia a Marti, domenica scorsa, per la Messa d’ingresso del nuovo parroco di Montopoli, Marti e Capanne, don Udoji Onyekweli: «Canta e danza, carissimo don Udoji… Canta e danza la vita, canta e danza la preghiera, canta e danza la fantasia della carità, canta e danza la vita dei sacramenti, canta e danza la misericordia di Dio, canta e danza la tua fede e la tua fedeltà al Signore e alla sua chiamata, canta e danza l’amicizia, canta e danza anche le tue fatiche, canta e danza l’amore. Canta e danza, don Udoji… e fai cantare e danzare anche questa bella comunità che è la Chiesa di Montopoli, Capanne e Marti qui riunita».

Una grande folla di fedeli gremiva la pieve di Santa Maria Novella per assistere alla celebrazione d’insediamento, animata da un grande coro interparrocchiale e da numerosi chierichetti. Erano presenti il sindaco Capecchi e altre autorità civili e militari. A far corona al Vescovo e al nuovo parroco, i sacerdoti concelebranti, tra i quali don Massimo Meini che coadiuverà don Udoji nell’attività pastorale durante i fine settimana. Prendendo spunto dalle letture della festa della dedicazione della chiesa, il Vescovo ha sottolineato come quelle pagine parlassero anche delle parrocchie di Montopoli, Marti e Capanne e del cammino unitario che le attende. Un popolo abitato dalla presenza di Dio che fa spazio all’altro, al fratello, ad ogni uomo. «Sarà questo un primo compito del nuovo parroco – ha sottolineato mons. Migliavacca -. Custodire nella comunità la presenza di Dio e favorire che ciascuno, anche lo straniero e il diverso si senta di casa, facendo crescere la comunità sugli itinerari della carità». Il presule ha poi commentato la seconda lettura, in cui san Paolo ricorda «ciascuno ha dei doni che servono per la vita della Chiesa. Ciascuno dovrà contribuire, nel rispetto delle tradizioni e delle storie di Capanne, Montopoli e Marti, al camminare insieme. Il prete porta nella vita della comunità cristiana il proprio dono, il proprio servizio, nel rispetto di quello di tutti gli altri. «A don Udoji è chiesto oggi di venire tra voi consapevole di essere un dono – ha ribadito il vescovo – di essere portatore di un servizio… È venuto appunto per servire. Ed egli ha anche il compito di riconoscere e valorizzare i doni di ciascuno di voi per metterli al servizio della comunità». Il Vangelo, infine, con la pagina sorprendente e inedita della cacciata dei venditori dal tempio, ha dato lo spunto per ricordare che la Chiesa, per essere luogo della presenza del Risorto, e quindi della vita che ricomincia, «richiede prima un esorcismo, scacciare i venditori, scacciare il male e tutto ciò che è contrario a Dio e al suo amore, per aprirsi così alla vita donata, allo Spirito che è la vita».

Don Udoji ha accolto con gratitudine, e un po’ di trepidazione, il compito affidatogli dal Vescovo di mettersi al servizio di una nuova grande unità pastorale: «Non so come andrà…», ha confidato il sacerdote nel suo saluto al termine della Messa, suscitando il primo grande applauso da parte dell’assemblea. Con la sua simpatia don Udoji ha conquistato il cuore dei fedeli delle sue nuove parrocchie: «Studio da tanti anni ha detto – mi manca solo un esame, quello della bilocazione. Un po’ di pratica l’ho fatta a Galleno, Pinete e Querce però tutte le volte vengo rimandato…». Essere presente in più comunità diverse è per il parroco una sfida di cui i parrocchiani hanno dimostrato di essere consapevoli, nel loro saluto e nelle ovazioni che sono risuonate nella chiesa. Con la sua fede nutrita di Vangelo, don Udoji ha affidato il cammino comunitario nelle mani del Signore che ha detto: «Qualsiasi cosa chiederete al Padre nel mio nome ve la concederà». Poi ha lanciato ancora una battuta: «il vescovo ci ha dato il permesso di cantare e ballare» che ha scatenato ancora l’entusiasmo dei fedeli: «Con Cristo ci si diverte e noi siamo pronti a divertirci» ha ricordato don Udoji. Un invito a vivere con gioia, il percorso delle tre comunità. I parrocchiani hanno donato a don Udoji un’icona di Cristo Maestro e una casula. Poi la festa è proseguita nell’ex asilo, con un rinfresco per tutti. (dfr)

 

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Intervista a don Udoji prima del suo ingresso

di Francesco Fisoni

Tutto è pronto nella neocostituita unità pastorale di Montopoli, Capanne e Marti per accogliere questo fine settimana il nuovo parroco don Udoji Onyekweli. Entrato nel collegio del Seminario di Abuja, in Nigeria, all’età di 11 anni, don Udoji vanta studi in filosofia e inaspettate esperienze lavorative come tecnico informatico e amministratore in un grande albergo. Arrivato in Italia nel 2000, all’età di 27 anni, conobbe l’allora vescovo Edoardo Ricci che lo accolse nella nostra diocesi. Dopo gli studi teologici a Firenze è stato ordinato sacerdote nel 2005 dal vescovo Tardelli. Lo abbiamo raggiunto nelle Cerbaie, dove è stato parroco da dieci anni, per una chiacchierata. Disponibilità rara e simpatia contagiosa, ci racconta come la sua vocazione sia nata in famiglia grazie ai genitori, convertiti al cattolicesimo, che lo hanno educato a una fede rocciosa nella Provvidenza: «Mia madre mi diceva sempre che per ogni problema esiste una soluzione e dove non arriviamo noi con i nostri mezzi, arriva la Provvidenza, che non fa mai mancare ai suoi figli ciò che è necessario per una vita buona. Queste parole che ascoltavo quando ero bambino incidono ancora oggi in modo determinante nella mia vita di cristiano e di sacerdote».

Gli chiedo: sei stato parroco per 10 anni a Galleno e per 9 a Le Querce. Un tempo in cui hai visto crescere diverse generazioni di parrocchiani. Cosa porti nel cuore dal servizio che hai prestato loro in tutti questi anni?

«Dieci anni non sono tantissimi, ma sono comunque sufficienti per farmi sentire tutto il dolore del distacco. Con queste comunità ho affrontato situazioni davvero inedite, che mi hanno cambiato profondamente, mutando anche il mio modo di stare in mezzo alla gente. Situazioni che hanno portato anche a importanti trasformazioni nella struttura di queste stesse parrocchie. Porto nel cuore 10 anni di esperienze faticosamente belle, che hanno trasformato il mio personale concetto di Chiesa e di parrocchia. È qui, grazie ai miei parrocchiani, che ho imparato come la Chiesa deve essere fermento in una comunità. E poi non posso dimenticare le storie di tante e tante persone incrociate in questo decennio. Porto tutti nel cuore».

La parrocchia per un prete è un po’ come la famiglia. Tu hai dovuto salutarne ben due. Quali manifestazioni di affetto ti hanno raggiunto e cosa hai detto ai tuoi parrocchiani nell’accomiatarti da loro?
«Le due comunità di cui parli sono diventate nel tempo un’unica famiglia. Ho vissuto con loro proprio come si vive in una famiglia, con loro ho avuto la libertà di manifestare anche le mie fragilità e il mio limite. Come in una famiglia talvolta abbiamo litigato. Ma sono stati proprio questi momenti di confronto che ci hanno regalato poi la bellezza della riappacificazione e riconciliazione. Ecco perché il sentimento che mi pervade in questo momento è simile a quello di chi va via da casa. Per certi aspetti questo distacco mi riporta a quando, venti anni fa, lasciai la Nigeria, salutando i miei genitori per venire in Italia. I miei parrocchiani mi hanno voluto tanto bene e me lo stanno dimostrando in questi giorni nei modi più diversi. Posso dire che c’è una indicibilità, una difficoltà nei nostri abbracci di commiato a riassumere questi dieci anni, tanto sono stati ricchi e intensi. È grazie a questa gente che ho imparato cosa significhi essere prete. Il seminario mi ha preparato al sacerdozio. Nei primi anni di servizio a Ponsacco e poi a San Miniato Basso ho iniziato a camminare nel ministero, ma è stato a Galleno, Pinete e Querce che ho imparato davvero cosa vuol dire essere sacerdote di Cristo. Essere prete per me ha voluto dire vivere una storia d’amore a tutto tondo. Un prete che è incapace di amare è un prete che fa il mestiere e che non ha trovato la missione nella vocazione».

Cosa lasci come eredità a don Anthony Padassery che ti subentrerà? Cosa vorresti dirgli?

«Lascio una comunità consapevole del cammino fatto. Una comunità che anche ha faticato. Una comunità consapevole di essere composta da tre chiese, temperata e forte che desidera continuare il cammino intrapreso e consolidare quanto costruito nel tempo. Lascio anche un gruppo di collaboratori, con una mentalità flessibile che attende don Anthony per camminare sotto la sua guida. In queste situazioni c’è sempre la tentazione di aggrapparsi “ai santi vecchi”. La tentazione di rimpiangere chi se ne va. Ma in generale percepisco la consapevolezza del tempo nuovo che stiamo vivendo e anche della necessità di dover modificare – pur non sapendo ancora in che termini – qualcosa nella Chiesa. Auguro a don Anthony buon lavoro e buon cammino. Sono contento che sia lui a succedermi e sono sicuro che saprà ascoltare e riconoscere quello che è stato fatto, conservando il buono che c’è per trasformare quanto non siamo riusciti a fare bene».

Guardiamo al futuro: Montopoli, Marti e Capanne. Centri importanti della nostra diocesi. Ti aspetta una specie di “battesimo del fuoco”: realizzerai infatti il primo esperimento di unità pastorale costituita da tre grandi parrocchie autonome tra loro, ma con parroco unico. Si tratterà praticamente di un’unificazione pilota, che non potrà non rappresentare un paradigma di riferimento per il futuro, soprattutto in considerazione della scarsità di sacerdoti rispetto al numero delle parrocchie. Con quali sentimenti ti accingi ad assumere questo servizio e quali sono, secondo te, le sfide che qui ti aspettano?

«Si tratterà di una situazione piuttosto diversa rispetto a quella che ho vissuto sulle Cerbaie. Anche se posso dire che proprio quanto ho vissuto e sperimentato a Galleno, Pinete e Querce sarà per me un riferimento molto utile. La percezione che ho è quella di andare incontro a una novità molto stimolante, soprattutto perché in questa che hai chiamato “unificazione pilota”, più che vederci la conseguenza di una scarsità di preti, intuisco la mano di Dio che guida la Chiesa nella direzione secondo un suo disegno. L’orizzonte è quello di comunità capaci di comunicare l’una con l’altra, di vivere insieme e integrarsi, facendo un cammino unitario. Affronto questo nuovo servizio con questi sentimenti e con la certezza che non siamo soli, perché si tratta di un cammino che Dio stesso ci propone».

C’è qualcosa che vorresti dire ai tuoi futuri parrocchiani?

«Carissimi, vengo da voi con grande gioia per affrontare questa nuova esperienza di Chiesa. Ho il sincero desiderio di incontrarvi e conoscervi, per “cucinare” insieme a voi nuove idee e costruire nuove abitudini. Sono certo che tutti insieme riusciremo a trarre il miglior bene possibile da questa proposta che il vescovo ci ha fatto. Sarà un cambiamento. Per me tutto questo è di grande stimolo e fonte di nuovo entusiasmo. Il Papa ci chiede una Chiesa in uscita e io vorrei dirvi, amici miei, che proprio oggi abbiamo la possibilità di dare il nostro contributo alla crescita della Chiesa e all’annuncio del vangelo. In questo nuovo assetto che assumeranno le nostre parrocchie, più che fare di necessità virtù, vorrei che vedeste la proposta che Dio ci fa per vivere e annunciare ancora meglio il vangelo di Cristo. Preghiamo allora gli uni per gli altri, per riuscire in questa avventura sulle orme di Gesù Cristo. Non dimenticate di pregare per me, perché io riesca ad essere quello che vi aspettate: un amico, un fratello, un padre, un sacerdote secondo il cuore di Dio e che la gioia del Signore sia sempre la nostra forza».