Una giornata alla scoperta della storia del quartiere dello «Scioa» di San Miniato: il Convento delle Clarisse di San Paolo e il «Bastardaio» presso l’Ospedale degli Infermi in piazza XX settembre
Delle clarisse di San Paolo a San Miniato avremo occasione di riparlare, per molti motivi legati al loro essere donne, certo importantissime nella storia della Diocesi, ma anche per il loro fondamentale impegno nei confronti delle famiglie più bisognose e in particolare delle donne di queste famiglie, fino all’accoglienza prestata più di recente per una serie di giovani africane, spesso ragazze madri di bambini senza padre. Oggi vorremmo invece parlare del loro Convento come introduzione alla visita fatta nei giorni scorsi ai luoghi dove per secoli ha avuto sede il cosiddetto “Bastardaio”, quella istituzione che ha accolto migliaia di bambini abbandonati.
La visita è stata organizzata dalla Commissione Pari Opportunità del Comune di San Miniato, nel ciclo denominato «Dido, Storie di donne», che va alla ricerca di figure femminili più o meno cancellate dalla storia della città. Ne scriviamo qui per più motivi, ma soprattutto perché questo luogo è stato per secoli voluto da monache, sacerdoti e anche laici, spinti semplicemente dalla Misericordia Cristiana. Hanno attraversato questo luogo tante figure spesso senza nome, quasi sempre di estrema gentilezza e accoglienza, in un raggio di influenza che potrebbe corrispondere ai confini della attuale Diocesi, travalicandoli spesso, come quando a inizio ‘800, arrivarono a San Miniato i bambini del circondario di Livorno, portando il numero degli ingressi addirittura a decuplicarsi.
Paragonando infatti le immissioni con un altro brefotrofio, stavolta di Poggibonsi, sempre dipendente – come quello di San Miniato – dall’Ospedale Santa Maria della Scala di Siena, scopriamo che là gli ingressi vanno, tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, dai 2 agli 8 bambini all’anno, mentre nel bastardaio di cui stiamo parlando entrano, in epoca di magra, dai 25 ai 30 bambini per anno, con una evidente altissima incidenza, anche nella vita della città. Perché questi bambini ben presto escono dal bastardaio e diventano a tutti gli effetti cittadini come gli altri, a meno appunto di non morire prima, fatto come vedremo più che frequente.
Nella sezione locale della Biblioteca “Mario Luzi” di San Miniato c’è una tesi molto interessante dedicata a «Gli Ospedali Riuniti di San Miniato nel primo trentennio di vita, 1786-1815», scritta da Roberta Ragionieri e discussa nell’anno accademico 1990-91 alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze con il professor Leandro Perini. Si tratta di un lavoro importante, che crediamo non proseguito da altri (ma saremmo felici di una qualsiasi smentita), neppure su rivista. Una buona parte del lavoro (pp.151-249) è dedicato a «La raccolta dei gettatelli», di cui l’Ospedale di San Miniato si è occupato fino ad anni recenti, con il cosiddetto “bastardaio”, dove bambini in genere abbandonati crescevano, spesso per integrarsi nella popolazione, grazie a matrimoni, ma anche ad impieghi che lo stesso Ospedale poteva fornire loro.
Da questa ricerca si desume ad esempio che dai 20 esposti nel 1786, si passa ai 27 del 1815, con punte intermedie, proprio nei tre anni precedenti di 208, 213, 273. Giacché a San Miniato arrivarono i bambini da tutto il circondario di Livorno. Quello che impressiona di più in questi dati, è che nel 1786 la mortalità toccava l’85% dei gettatelli, con 17 morti, di cui 5 maschi e 12 femmine. Ma nel 1815 con 27 nuovi ingressi, c’è una mortalità che tocca il 278 %, giacché sono deceduti ben 75 bambini, tra i quali 46 maschi e 29 femmine. Questo per far capire le condizioni di assoluto disagio in cui questi «bastardi» venivano tenuti. Usiamo questa parola, proprio perché nei documenti dell’Ospedale e anche nel linguaggio comune, questo era il termine con cui venivano definiti questi bambini.
L’attività a favore dei bambini illegittimi era attiva a Siena, all’Ospedale della Scala, da cui dipendeva anche San Miniato, fino dall’Alto Medioevo, senz’altro dalla metà del ‘200. Si trattava di piccoli ospizi per curare i poveri e raccogliere gli esposti, che dipendevano direttamente dall’istituzione centrale. Il ricovero di San Miniato fu edificato da incaricati senesi nel 1333 e così resterà organizzato fino al 1786, anno della riforma leopoldina. Proprio Pietro Leopoldo aveva, nel 1773, soppresso il Convento Agostiniano, a fianco dell’Ospedale, attribuendone le rendite a favore dei bambini esposti. Questo in corrispondenza di un dibattito molto acceso sull’abolizione delle “ruote”, quei tornelli all’interno dei quali i bambini venivano abbandonati. Ci sono ruote ancora esistenti dentro al Convento di San Paolo, ed è questa la ragione per la quale il nostro viaggio comincia da lì. La ruota serviva per mettere le suore di clausura in comunicazione indiretta con il mondo. La gentilissima madre superiora ci dice però che verso l’esterno c’era una ruota molto più grande che permetteva di arrivare al convento direttamente dalla strada, senza alcun altro cenno o campanello, com’è necessario per arrivare a quelle interne.
Nell’ospedale c’era invece un campanello, che avvisava il personale dell’arrivo di un bambino, anche se spesso lo si abbandonava senza avvertire, per non farsi riconoscere. Il sesso non era un fattore determinante, ma lo era invece la malattia o la deformità, nel senso che l’affidamento era l’unica possibilità delle famiglie povere di far curare i bambini.
Comunque, e l’abbiamo già visto, i disagi iniziali, le cattive condizioni degli ospedali, facevano sì che di rado i bambini superassero la fase infantile, raggiungendo la maturità. I particolari dell’abbandono erano segnati con un certo rigore, nella speranza di un futuro riconoscimento: portato in una «sporta con un manico di giunchi e uno di fune», «guancialino di coltrice sudicia», che raccontano meglio di altro il contesto contadino povero dal quale quasi sempre arrivavano i bambini.
Il saggio della Ragionieri si occupa di numerosi altri temi, in particolare relativi alle Fedi di Battesimo, che in genere venivano redatte dai parroci, figure intermedie tra il popolo e le istituzioni; poi sulle balie e sulle levatrici, sulle possibili adozioni e i cosiddetti «maritaggi», che riguardavano nozze che avevano per sposa una «figlia dell’ospedale», che dotava la ragazza di una dote, che crediamo diventasse uno dei motivi del matrimonio stesso. Un capitolo molto interessante è dedicato alla formazione e al lavoro, dove si vede come le ragazze non avessero nessun percorso formativo. Pietro Leopoldo definiva queste fanciulle: «Di poco capo e disunito, delle quali poco vi è da compromettersi». Devono solo lavorare, senza che nessuno, almeno ufficialmente, fosse tenuto ad impartirgli alcuna nozione, sia pur elementare. Comunque Pietro Leopoldo stesso fondò «le scuole normali e conservatori per le ragazze dove, insieme alla religione e alla morale, si insegnava a leggere e scrivere, fare di conto ed i necessari lavori familiari (maglia, cucito, tessitura dei vari panni… )».
Alcune delle ragazze, che non potevano andare all’esterno e che non trovavano lavoro nelle case private, venivano utilizzate all’interno dell’Ospedale, come aiuto infermiere, faticanti, cuoche o addette ai telai, che producevano stoffe per il fabbisogno interno, ma in parte anche esterno. Il lavoro era scandito dagli obblighi religiosi e andava dalle 7 del mattino alle 10 di sera. C’era una maestra dei lavori, che era una delle donne, in genere con maggiore esperienza. Un ultimo capitolo è destinato al «Nome» del bambino esposto, con tutta una serie di nomi e di cognomi utilizzati per dare un riconoscimento al bambino, destinato a diventare adulto e a portarsi addosso questo che restava come una specie di marchio di fabbrica.
Sul Bastardaio e sul convento di San Paolo, pagine importanti sono state lette a partire dai libri di Giancarlo Pertici, che ha anche raccontato una serie di episodi da lui raccolti da quelli che, verso la fine degli anni ‘50, erano suoi coetanei. Il Bastardaio ha finito di esistere negli anni ‘60, molti dei presenti ne avevano ancora chiari ricordi. Per questo, dopo circa tre ore di visita, la bella chiesa di Santa Caterina in piazza dell’Ospedale era ancora affollata di pubblico. Proprio lì, grazie all’ospitalità di don Francesco Zucchelli, è continuata la visita, con i bellissimi interventi dovuti a due ricercatori dell’Istituto degli Innocenti di Firenze. Sia Maurizio Parente che Xavier Garcia hanno raccontato con partecipazione quello che unisce drammaticamente le donne di oggi e quelle dei secoli passati, e naturalmente i loro piccoli “innocenti”, che dovevano, e a volte devono, subire molte vessazioni e rinunce. Proprio in questi termini è stato raccontato, in alcune testimonianze che spontaneamente hanno commosso la platea. Insomma una giornata splendida, di grande intensità, che ha fatto aprire una pagina nella storia della città e di tutta la Diocesi, che non potrà facilmente essere richiusa.