Intervista col vescovo Roberto Rodriguez Petri

«A Staffoli, le mie radici»

di don Francesco Ricciarelli

Le sue radici sono in diocesi di San Miniato, nella frazione di Staffoli, ed è stato durante una visita ai suoi parenti e amici toscani che abbiamo avuto il piacere di incontrare e di intervistare monsignor Roberto Rodriguez Petri, vescovo emerito di La Rioja (Argentina).

Il vescovo Petri ha voluto festeggiare insieme a don Andrea Cristiani e ad altri sacerdoti, il 50° di Messa dell’amico don Ordesio Bellini, prete della diocesi di Livorno, volto noto di Telegranducato. In attesa della conviviale a casa dei parenti staffolesi, ci siamo fermati nella chiesa parrocchiale di San Michele, dove il vescovo argentino si è reso disponibile a rispondere alle nostre domande, la prima delle quali riguardava ciò che lo lega alla nostra terra: «Quando morì mia mamma, – ha raccontato – trovai il certificato di matrimonio dei mei nonni. Così scoprii che mio nonno era nato a Staffoli, figlio di Fortunato Petri e di Annunziata Della Maggiore. Chiesi a don Ordesio, che era a Livorno, di informarsi se c’erano ancora dei Petri a Staffoli. Avevo conosciuto don Ordesio a Roma, quando studiavamo Teologia alla Gregoriana, e poi l’avevo incontrato spesso nel periodo in cui era missionario in Paraguay. Grazie a lui ho potuto conoscere Ido Petri, il cui nonno era fratello di mio nonno. Così abbiamo ricostruito l’albero genealogico. La mamma di don Andrea Cristiani è la cugina di mio nonno. Per la prima volta sono venuto a Staffoli ventidue anni fa, ero un vescovo giovane… Da allora ogni due anni vengo in Italia e passo sempre da Livorno, e da Fucecchio o San Miniato a trovare don Andrea. Una volta – confida con affetto – sono venuto a Staffoli nel giorno della festa patronale e ho cresimato un gruppo di ragazzi».

Gli abbiamo chiesto della sua amicizia con Papa Francesco: «Io e lui – ha detto – siamo nati lo stesso anno, io ad agosto, lui a dicembre. Siamo stati ordinati vescovi ausiliari, lui a Buenos Aires io a Cordoba, lo stesso anno. Abbiamo partecipato tante volte all’assemblea plenaria dei vescovi argentini, perciò lo conosco bene. Abbiamo sempre condiviso certe idee, una certa visione di Chiesa. Lui è sempre stato un uomo semplice, nato in un quartiere umile, popolare. Devo confessare che la sua elezione al pontificato è stata una grande sorpresa. Tutte le volte che vengo a Roma vado a trovarlo. Senza chiedere un’udienza privata, vado a salutarlo dopo l’udienza generale. L’ultima volta, sono stato da lui con i vescovi argentini in visita ad limina e lui, quando mi ha visto, non ha fatto mancare una battuta scherzosa». Monsignor Petri, dal 2015, è presidente onorario del movimento Shalom. Gli abbiamo chiesto come abbia conosciuto questa associazione: «Il movimento Shalom è nato qua, mio nonno è nato qua, don Andrea è nato qua. Quando Andrea mi ha detto che avrei potuto essere un membro onorario dell’associazione, ho accettato. Poi sono andato con lui in Burkina Faso, quando la situazione era più tranquilla. Ora siamo preoccupati per la presenza dello stato islamico in quella regione. Sono contento di essere in rapporto col Movimento Shalom, anche se da lontano. Vivo a 13000 km di distanza…».

Ricordando la sua discendenza da migranti italiani in Argentina, abbiamo chiesto infine a monsignor Petri come veda l’attuale realtà delle migrazioni. Riferendosi a un articolo letto su Civiltà Cattolica, ha risposto: «La migrazione che abbiamo avuto noi in America Latina era diversa da quella attuale perché l’Argentina aveva terra sufficiente per accogliere tanta gente e chi è arrivato aveva già la possibilità di un lavoro. Vicino al paese dove abito ci sono molti friulani, che hanno fondato una comunità fiorente. I genovesi si sono stabiliti nei pressi del porto. I piemontesi sono andati più all’interno, dove c’erano molti campi. Insomma, per quei migranti c’erano molte possibilità. I migranti di oggi arrivano in una situazione in cui c’è già scarsità di lavoro e spesso trovano grandi difficoltà a integrarsi. Eppure è un’onda di popoli che emigrano per vivere e non possiamo ignorarla o limitarci a respingerla. Bisogna pensare al modo di soccorrerli, come ci chiede il Papa, di trovare uno spazio per loro».