Voler fare il bene e non sapere dove orientarsi. Scelta preferenziale per i poveri, prossimità verso chi soffre nel corpo, aiuto a chi è afflitto nello spirito? Tra i tanti paradossi che conoscono le nostre vite, capita anche d’incappare in questo tipo di stallo decisionale. Nei giorni scorsi abbiamo incontrato una bella realtà che ha indirizzato, prioritariamente, i suoi sforzi e il suo desiderio di bene verso i bambini con storie di fragilità familiare alle spalle, scegliendo dunque di privilegiare “l’uomo” nel suo stadio di formazione più delicato. Stiamo parlando dell’associazione «La Casa di Hippa e Lella onlus» che ha sede a Fucecchio e che, dal 2006, realizza un importante collegamento tra mamme adottive e affidatarie. Questa associazione è ideatrice del progetto «Mi fido e m’affido», attraverso il quale diverse realtà del nostro territorio collaborano al cosiddetto “affido professionale”, con l’obiettivo di assicurare ad ogni bambino una casa e una famiglia. Lo strumento giuridico mediante il quale ciò s’invera è appunto quello dell’affido familiare, istituito con la legge 184 del 1983: una risposta di cura, di tutela e di educazione per bambini temporaneamente privi di un ambiente idoneo in cui vivere e crescere e che concretamente si attua attraverso l’inserimento del minore in un nucleo familiare diverso da quello originario.
Abbiamo conosciuto Paola, attiva nell’associazione, che ci ha spiegato come «la forza del progetto risiede proprio nella forza della rete realizzata tra le diverse realtà di zona, tra cui anche la nostra Asl di pertinenza. Il tema dell’affido se non viene affrontato collegialmente da tutti i soggetti che a vario titolo lavorano sui minori, non produce risposte soddisfacenti. “Affido” significa mettersi a disposizione di qualcuno che soffre una fragilità e che nella sua fragilità ha poche o nessuna opportunità. Ospitare un bambino potrebbe anche essere un’esperienza limitata nel tempo, ma il rapporto che si costruisce resta per tutta la vita. È un servizio reso a tutta la collettività, perché se non facciamo adesso qualcosa per risolvere il problema di questi piccoli, poi ce li ritroveremo adolescenti e adulti con problematiche assolutamente rinforzate. In un percorso del genere non si è mai lasciati soli. Il bambino in affido è tutelato dal Tribunale, dai servizi sociali e da figure di aiuto psicologico. Nel tempo dell’affido ci si confronta costantemente con questi interlocutori». Chiediamo a Paola quante modalità di affido esistano: «Gli affidi sono di vario tipo. Ci sono situazioni di disagio in cui il minore viene tolto in maniera eclatante dalla famiglia per intervento stesso del Tribunale (affido d’emergenza).
Ma ci sono anche situazioni di fragilità, come ad esempio i casi delle madri sole che lavorano e non hanno rete solidali cui appoggiarsi. Allora si procede con un affido part time, ossia i bambini vengono presi a scuola, tenuti nel pomeriggio e poi riportati a casa la sera. In particolare con «Mi fido e m’affido» la nostra associazione ha importato un’esperienza feconda già sperimentata nell’hinterland milanese, quella del cosiddetto “affido professionale”. Il progetto, finanziato dalla Regione Toscana e dalla nostra Società della Salute, riguarda 4 azioni principali. La Prima concerne la costruzione di un linguaggio comune tra tutti i soggetti coinvolti. Occorre una formazione condivisa per affrontare queste tematiche. Banalmente anche mettersi d’accordo sul significato della parola “affido” è già un intervento che fa ecologia ai fini dei nostri intenti. La seconda azione riguarda l’informazione ad extra. È solo infatti un’informazione corretta e ben costruita che consente di incontrare la disponibilità delle famiglie. La terza azione è quella che accompagna, attraverso un gruppo di sostegno, le famiglie che si candidano ad essere affidatarie. Al quarto punto troviamo invece l’elemento davvero innovativo del progetto, ossia la sperimentazione, già attiva qui da noi con due famiglie e che consentirà di capire come implementare al meglio il progetto sulle specifiche dei nostri territori. Le persone che scelgono questo tipo di affido hanno bisogno di una costante formazione. In questo caso è chiesto a uno dei due genitori, come requisito, di avere un lavoro part time.
Una grande risorsa in questo tipo di percorso è poi la figura del tutor, a disposizione della famiglia per ogni genere di evenienza, 24 ore su 24. A questi genitori viene inoltre riconosciuta un’indennità economica». Ad oggi il progetto è stato portato in alcune scuole elementari, dove è stato presentato alle insegnanti e ai genitori dei bambini. Sono stati fatti incontri anche in alcune parrocchie della nostra diocesi. Occorre dire che proprio la risposta delle nostre comunità parrocchiali è stata molto positiva. Ci dice ancora Paola: «Ci auguriamo che un numero sempre maggiore di parroci ci apra le porte. Mi sento di ringraziare il vescovo Andrea che nell’aprile scorso ci ha offerto l’opportunità di presentare il nostro lavoro ai sacerdoti riuniti nell’incontro mensile di formazione per il clero». In chiusura chiedo a Paola quale sia la molla decisiva che la spinge a questo impegno. Mi risponde con grande sincerità: «Tutti i bambini devono avere una famiglia! Glielo dobbiamo. Il nostro futuro passa da loro. È una dimensione transpersonale, che va oltre di noi». Poi mi parla della sua esperienza personale: «Al momento del matrimonio, io e mio marito avevamo fatto domanda di adozione. Poi si è prospettata la possibilità di un affido, esattamente quando sono rimasta incinta. È stato bellissimo: siamo passati di colpo da essere coppia ad essere in quattro, con due bimbi, uno in grembo e uno più grandicello – 13 anni – con alle spalle una storia di grande sofferenza. Da allora sono passati otto anni. Oggi guardo negli occhi il figlio che mi è stato “donato”. È un uomo di 21 anni, poteva non farcela… è andata invece nel modo migliore possibile. L’amore vince sempre”.