Fra Matteo Brena è il Commissario di Terra Santa per la Toscana, un ruolo dal valore simbolico e operativo importante, che implica innanzitutto rappresentare sul territorio della nostra regione le attività della Custodia francescana di Terra Santa. Alla vigilia della processione con il Ss.Crocifisso del prossimo 13 ottobre a San Miniato, che avrà proprio nella preghiera per la pace in Terra Santa uno dei temi ispiratori, padre Brena riflette sulle prospettive di pace in Medio Oriente, sulla necessaria compassione verso le comunità cristiane là presenti e sul valore dei pellegrinaggi come testimonianza attiva di vicinanza.
Fra Matteo, dal 7 ottobre dello scorso anno in Terra Santa infuria una tragedia che sembra aver superato ogni misura. Come si fa ad essere artigiani di pace – come voi Francescani – in mezzo a tanto sangue e tanta devastazione?
«Il contributo di noi francescani dentro questo tempo sanguinoso e buio per la Terra Santa è quello di continuare a fare quello che da secoli facciamo, ossia tenere vivi i luoghi santi attraverso la cura, ma soprattutto la preghiera. La custodia di Terra Santa nasce proprio con l’intento di pregare costantemente sui luoghi santi. La seconda cosa essenziale che facciamo è prenderci cura delle comunità locali, in particolar modo di quelle cristiane, ma non solo. Lo facciamo attraverso varie opere, come le scuole, l’educazione e poi anche l’intervento a livello sanitario o di altre necessità che si vengono a creare nelle situazioni di guerra. I nostri occhi sono attenti innanzitutto alla povertà e, se pensiamo alla Siria, anche a provvedere il cibo o alla ricostruzione delle case. Gli eventi del 7 ottobre dello scorso anno sono un’ombra molto forte che sembra togliere speranza e futuro. Il nostro compito in questo momento è quello di tenere gli occhi puntati verso l’orizzonte, aiutando le persone a guardare l’orizzonte con il desiderio della pace».
Vedi affiorare speranze di pace per la Terra Santa e il Medio Oriente? Ci sono segnali di speranza anche a livello delle comunità locali o della diplomazia internazionale?
«Purtroppo ad oggi non si vedono segnali di una pace concreta. Ci sono anzi sempre più indizi di un peggioramento, anche nel dibattito politico e nella comunicazione. Lo vediamo proprio in queste ore, dove coloro che hanno in mano le sorti di questi due paesi, Israele e Palestina, sembra siano accecati dall’odio e dal desiderio di vendetta. Questo non rende possibile nessun tipo di dialogo. La diplomazia internazionale poi è bloccata, a mio avviso, in un politicamente corretto che, se possibile, sconvolge ancora più dell’atteggiamento dei litiganti. Quella comunità internazionale che dovrebbe essere garante di equilibrio e dialogo, perché non coinvolta direttamente nel conflitto, è invece una comunità assente e distratta, forse troppo preoccupata di garantire i propri interessi. Questo purtroppo non fa guadagnare fiducia nella nostra politica internazionale da parte dei cittadini».
Come uomini siamo spesso tentati di schierarci per questa o quella parte, seguendo il vento delle proprie passioni e il credo delle ideologie. A un cristiano invece cosa è chiesto in situazioni di conflitti così aspri? Come si può mantenere una posizione di equidistanza senza sembrare indifferenti?
«Sì, la tentazione di fronte a un conflitto è sempre quella di prendere una parte e quindi di abbracciare una bandiera, una ragione. Ma al cristiano è chiesto qualcosa di diverso: abbracciare i sofferenti, coloro che sono vittima di un’ingiustizia. Si tratta di tante persone e stanno da entrambi le parti. Il cristiano deve tenere l’occhio puntato sull’innocente, sul povero, sull’oppresso che sono ai margini del conflitto, ma finiscono per essere i diretti destinatari delle conseguenze del conflitto stesso, come accade con le bombe e i proiettili. Mantenere una posizione di equidistanza è una sfida grande, che possiamo accogliere solo quando abbiamo il coraggio di informarci riguardo alla complessità di un conflitto. Ciò significa leggere, ascoltare, cercare di entrare nel vissuto delle persone che stanno soffrendo. Credo sia necessario in questo momento far sperimentare loro la vicinanza. Questo è quello che il cristianesimo può fare, usando anche una delle caratteristiche fondanti della nostra fede che è la dimensione del perdono».
Il patriarca latino di Gerusalemme, il cardinal Pierbattista Pizzaballa, testimonia che negli ultimi decenni i cristiani presenti in Terra Santa si sono progressivamente ridotti di numero, e oggi rappresentano appena l’1% della popolazione complessiva, senza quindi un peso sociale e politico tale da poter incidere sui conflitti in corso; ma aggiunge subito dopo che essi, proprio per questo motivo, hanno la libertà di dire cosa pensano, senza sentire la necessità di conformarsi. In che modi esercitano questa loro “parresia”?
«La comunità cristiana si muove innanzitutto attraverso i comunicati del proprio pastore, il patriarca appunto, che in modo puntuale dirama messaggi A riguardo alla necessità della pace, e soprattutto su alcune iniziative prese da tutta la comunità cristiana a favore della pace, come sarà anche il prossimo 7 ottobre in cui il patriarca, monsignor Pizzaballa, ha invitato tutta la comunità locale a vivere una giornata di preghiere e digiuno per la pace. Digiuno e preghiera sono elementi di discontinuità all’interno di un conflitto che si fa invece più feroce dal punto di vista bellico e dal punto di vista delle parole. Quindi il silenzio, la preghiera, e il pronunciare la parola “pace” diventano modi per i cristiani di non conformarsi a uno stile violento e bellicoso. Questa è una provocazione molto forte, che poi la comunità cristiana esprime capillarmente nelle proprie parrocchie e nelle proprie chiese».
Umanamente si corre sempre il rischio di abituarsi a queste tragedie. Immagino tu abbia da raccontarci tanto su certa pericolosa assuefazione… All’altro opposto, come spettatori fisicamente lontani e impotenti, c’è il pericolo di avvertire un paralizzante senso di colpa. Cosa possiamo concretamente fare per uscire da questi due estremi?
«Sì, il rischio è sempre quello di generare una distanza fra noi e il conflitto, un po’ forse per deresponsabilizzarci e affidarne a qualcun altro la risoluzione. È un meccanismo umano. Però, rispetto ad altri conflitti, quello della Terra Santa non può lasciarci neutri, perché questi luoghi sono collegati alle radici della nostra fede, della nostra cultura. La Terra Santa è casa nostra e quando casa nostra è ferita e in stato di guerra, non dobbiamo dare spazio alla tentazione della distanza. Noi possiamo contrastare tutto questo in vari modi, di cui il principale è quello di desiderare il pellegrinaggio. Un pellegrinaggio non si fa per piacere, ma si fa per necessità, per vivere un’esperienza di Dio. Una persona decide di andare in Terra Santa perché quella è la sua casa e quindi deve dirlo, in qualche modo, a chi amministra questa casa, che deve rimanere una casa di pace accessibile a tutti i credenti del mondo. Ecco, questo è importante, comprendere e dirsi quanto sono importanti questi luoghi. Da questo punto di vista allora diventa lesivo e anche un po’ “borghese”, pensare di rimandare un pellegrinaggio a un post-guerra, dire: “Aspettiamo che passi, aspettiamo che la Terra Santa sia più tranquilla”. È un atteggiamento che sinceramente ferisce anche le comunità cristiane locali, che si sentono abbandonate, oltre a far male a chi lo professa perché pone in un atteggiamento di distanza su una realtà che invece ci appartiene».
A San Miniato, il prossimo 13 ottobre, la nostra diocesi cercherà di porre un segno di speranza attraverso la processione del nostro Ss. Crocifisso, dove chiederemo a Dio il dono della pace. A chi vive in quei luoghi martoriati giungono gli echi di questa nostra compassione?
«Beh, gli echi della nostra compassione arrivano se siamo capaci di comunicarli, quindi sì, dobbiamo essere noi che organizziamo iniziative a dare loro rilevanza, soprattutto anche attraverso i social e le comunicazioni. Questo fa parte della nostra responsabilità. È nostra responsabilità anche far sapere che organizziamo queste cose alla classe politica, locale, nazionale; far arrivare insomma il messaggio che c’è una base, una cittadinanza, dei credenti che pregano per la pace e hanno a cuore la sorte di quelle terre, di quei luoghi e di quelle persone».
I vescovi toscani saranno in Terra Santa dal 14 al 17 ottobre. Che itinerario affronteranno? Qual è lo scopo di questo viaggio e quali esiti sono attesi?
«Sì esatto, si recheranno lì insieme al Commissariato di Terra Santa. Sarà un itinerario di ascolto- questo è il desiderio della Cet. Non è un viaggio politico, ma un viaggio in cui alcuni pastori della Chiesa vanno ad ascoltare le comunità cristiane locali per esprimere loro prossimità e vicinanza in questo momento di dolore. Si spera innanzitutto che sia possibile volare, perché le compagnie aeree, di fronte a questa crisi che peggiora di giorno in giorno, a volte sospendono i voli, in quel caso diventerebbe fisicamente impossibile andarvi. L’itinerario sarà molto semplice. I vescovi si muoveranno prevalentemente su Gerusalemme per mettersi in ascolto delle comunità cristiane locali attraverso i loro pastori, come il Patriarca Pierbattista Pizzaballa, ma anche il Custode di Terra Santa fra Francesco Patton. Vivranno dei momenti di preghiera al Santo Sepolcro e al Calvario, poi si sposteranno a Betlemme per la visita ad alcune opere segno come il “Terra Santa School”, la scuola dei Francescani che accoglie ragazzi cristiani e musulmani, andranno poi a conoscere una casa per anziani e un orfanotrofio, proprio per mettersi in ascolto dei più fragili e di come vivono questo momento di difficoltà. Se sarà possibile l’itinerario si concluderà a Gerico con la visita alla parrocchia del Buon Pastore, una delle più piccole parrocchie di Terra Santa. A Gerico i cristiani sono una percentuale molto piccola dentro una città che è interamente musulmana, ma qui il ruolo dei francescani, attraverso in modo particolare la scuola, è un ruolo fondamentale di custodia e di formazione per i giovani di Gerico e quindi rappresenta un importante investimento sul futuro».