Su invito del Serra club di San Miniato, il vescovo Giovanni ha tenuto una densa riflessione sulla fede dei popoli dell’America latina, andando alle origini della loro evangelizzazione e raccontando in modo articolato della nascita delle identità nazionali, della pietà popolare e dei semi di speranza per la Chiesa universale che da là arrivano.
«Partiamo da un dato: l’America continentale conta ad oggi il 50% dei cattolici battezzati di tutto il mondo. Stiamo dunque parlando della metà della Chiesa! Basterebbe anche solo questo fatto per farci capire che siamo di fronte a un polmone fondamentale e irrinunciabile per l’identità di Chiesa. E non è un caso che l’attuale pontefice sia stato scelto proprio tra i vescovi dell’America Latina». Con queste balenante considerazione di carattere statistico e demografico, il vescovo Giovanni ha dato avvio alla sua conversazione sul tema dell’annuncio del vangelo in America Latina nel XXI, simposio voluto e organizzato dal Serra club di san Miniato nell’aula magna del Seminario vescovile lo scorso venerdì 13 ottobre.
Un continente cristiano
Anche a un rapido sguardo, che prescinda dalla storia, il fattore identitario più forte che accomuna ancora oggi tutti i popoli latinoamericani risulta essere proprio la fede cristiana. «Chi come me – ha sottolineato in proposito monsignor Paccosi – è entrato in questo mondo dall’esterno, non può che restarne impressionato. Ho vissuto molti anni in Perù e visitato molti altri Paesi del continente. Ebbene, mi ha sempre colpito osservare come il modo di vivere la fede e la liturgia – e più in generale, se si vuole, il vivere la vita – sia uguale in tutti i paesi del sud America. Qualcosa di difficilmente comprensibile per chi vive in Europa, dove basta spostarsi anche solo di 100 km per ritrovarsi proiettati in luoghi con lingua e cultura differenti. L’America latina è invece un continente intero che parla la stessa lingua, che vive la stessa fede e che ha certe corrispondenze nel modo di sentire la vita che nascono proprio dal cristianesimo».
Il vescovo ha poi spiegato come almeno fino alla prima metà dell’800 tutta l’America centromeridionale era amalgamata in una sorta di “ecumene” religiosa e linguistica legata alla corona spagnola. Non esistevano le divisioni in stati nazionali come siamo abituati a conoscerle oggi. Le diverse coscienze nazionali prenderanno a sorgere proprio nel XIX secolo, alimentate da una narrativa che faceva degli spagnoli i grandi nemici. Questo fatto connota ancora oggi una specie di “peccato d’origine” nella genesi delle identità nazionali latinoamericane, che tocca per certi aspetti anche la fede come elemento identitario, alimentando una contraddizione: vengono rifiutate le radici spagnole ma poi tutto nella cultura, negli abiti e nelle usanze di questi Paesi tradisce le ascendenze iberiche. Questo è un vulnus che ha spinto e spinge, talora, certi milieu di pensiero progressista, soprattutto nelle università, a percepire il cristianesimo come qualcosa di avulso dall’etnos autoctono, un fatto arrivato da lontano e di cui si potrebbe fare a meno. Questo modo di ragionare si ritrova però solo a livello di cultura alta. «È come se fossimo in presenza di una persona che non riesce a voler bene alla sua mamma», ha commentato sagacemente monsignor Paccosi.
La pietà popolare
«La grande maggioranza delle persone – ha osservato ancora il vescovo – è cattolica e il modo in cui vive la fede è legato alla devozione a Gesù, alla Madonna e ai santi. Una devozione che si esprime nei pellegrinaggi, nelle feste, nelle processioni, nella recita del Rosario. Per esempio, in questi giorni a Lima si celebra la festa del Señor de los milagros, che dura tutto il mese di ottobre. Nell’arco di trenta giorni si effettuano 5 processioni, ciascuna delle quali può durare fino due giorni. Vi partecipano milioni di persone. Esiste lì la confraternita dei “cargadores“, cioè di coloro che portano sulle spalle il grande e pesantissimo baldacchino con l‘immagine miracolosa di Gesù crocifisso. La confraternita è composta da 12 mila persone divise in quadriglie di 40 persone e di solito portano l‘immagine per appena 15 minuti, anche perché è molto pesante e devono darsi rapidamente il cambio. Tanti di loro in passato mi hanno detto: “Tutto l‘anno vivo aspettando quei 15 minuti in cui sono io a portare il Signore”. È il loro modo di esprimere l‘affetto a Gesù e la loro fede».
A questo proposito monsignor Paccosi ha sottolineato l‘importanza che lo stesso papa Francesco dà alla pietà popolare e richiamando anche la Evangelii nuntiandi di Paolo VI ha commentato: «Se ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più, per le nostre masse popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo». In America latina la fede cresce per il portato decisivo di questa pietà popolare, che adeguatamente educata può davvero configurare un grande cammino di fede.
La Conferenza di Aparecida
Nel 2007 si svolse un evento di portata capitale: la quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano al santuario di Nostra Signora di Aparecida, il santuario più importante del Brasile. I vescovi che vi parteciparono lavorarono in stretta simbiosi con la vita del santuario, interessato quotidianamente da un flusso ininterrotto di pellegrinaggi. Questo fatto conferì un orientamento particolare ai lavori. Lo stesso papa Francesco ha raccontato della sua esperienza ad Aparecida, dove era presidente della commissione che redasse il documento finale, che è poi diventato la fonte per l’Evangelii gaudium. Ma ciò che di più vivificante nacque ad Aparecida non fu tanto un documento quanto il lancio di una missione continentale: tutta la Chiesa dell’America latina doveva mettersi in cammino per dare testimonianza della sua fede. È questa, ha osservato mons. Paccosi, l’idea madre che sta alla base della “Chiesa in uscita” del Santo Padre. Nel suo incipit quel documento recita: «Con gli occhi illuminati dalla luce del Signore Gesù Cristo risorto, possiamo e vogliamo contemplare il mondo, la storia, i nostri popoli d’America latina e dei Caraibi e ognuno dei suoi abitanti». Uno sguardo nuovo insomma, considerando che in America latina c’era una grande contraddizione in atto in quel momento, generata dai decenni precedenti: la Teologia della liberazione negli anni ‘70 mossa dai problemi reali dell’ingiustizia, aveva assunto come categorie interpretative della realtà gli strumenti dell’analisi storicomaterialista del marxismo, leggendo la liberazione come liberazione dal capitalismo, e spostandosi ben presto verso il confine pericoloso della rivoluzione e della lotta armata. Questa deriva è stata anche alla radice, in alcuni settori di Chiesa, di un reflusso con arroccamento su posizioni conservatrici improntate a un forte tradizionalismo. Poi, con l’elezione di papa Francesco nel 2013 è stato finalmente possibile iniziare a parlare del popolo senza per questo rischiare di essere ideologici. «Questo perché Francesco esprime un modo di vivere la fede che nasce dall’esperienza popolare – ha spiegato il vescovo -. Il suo sguardo non è uno sguardo ideologico, non ha da rispondere a determinati standard portati avanti dalla cultura dominante. La sua posizione nasce da una lettura di fede applicata alla realtà. Credo davvero che dopo Aparecida e dopo Evangelii gaudium, stia nascendo in America latina un movimento di Chiesa che vive di questa esperienza missionaria capace di abbracciare i veri problemi della società, le ingiustizie che ci sono leggendole in modo non ideologico».
Il continente della speranza
«L’America Latina è detto “il continente della speranza”, e veramente credo che lo sia – ha quindi concluso il vescovo – proprio perché se la fede è vissuta intensamente in America latina, vuol dire che metà della Chiesa la sta vivendo intensamente, e quindi per noi è un aspetto di speranza: perché anche nel nostro mondo invecchiato e fermo si possa vedere questo fiorire».