La 77esima edizione del Dramma Popolare di San Miniato ha portato sul palco, con coraggio e lucidità d’intenti, quelle che sono le caratteristiche costitutive della politica.
«Dramma Industriale», questo è il titolo del testo di Riccardo Favaro ottimamente messo in scena dal regista Giovanni Ortoleva, che ha chiuso il ciclo di rappresentazioni teatrali andate in scena già da giugno, con al centro avvenimenti centrali per la storia del nostro Paese e uomini di grande spessore etico come i giudici Falcone e Borsellino, don Milani, Aldo Moro, Camillo Olivetti. Figure che hanno incarnato ruoli di grandi responsabilità politica, civile e sociale.
In “Dramma Industriale” viene analizzata la figura storica, pubblica e intima di Giorgio La Pira, professore e sindaco di Firenze. Che cos’è la politica se non il mezzo più efficace per risolvere e prevenire le problematiche di una specifica comunità, nell’ottica di costruire una convivenza più generale di benessere e progresso? Proprio su questo si è giocato il dramma personale di Giorgio La Pira nella sua qualità di uomo politico. In prima istanza appare come imputato un solo partito, la Democrazia Cristiana, con tutto il suo apparato di uomini; mentre è un intero sistema democratico, economico e finanziario che è sotto esame. «Un sindaco è senza poteri particolari, a quanto pare» dice nello spettacolo La Pira. Un’osservazione che evidenzia tutti i suoi vincoli nella gestione della cosa pubblica, ma pone anche in evidenza il necessario concorso dei soggetti politici di maggioranza, attivi nel consiglio comunale, per l’approvazione di qualsiasi mozione.
In questo contesto di suddivisione di responsabilità, la figura femminile, che esercita nella scena il collante tra i vari personaggi, nel suo ruolo specifico di giornalista, dà una sua risposta alla domanda su cosa sia la politica: «La politica è un gioco: si pratica, si sente, poi si torna indietro. Fino a quando la faccenda non trova compimento. È un gioco che può sempre ricominciare». È il tormento umano di La Pira, che per il problema dei 2000 licenziamenti desidererebbe un’immediata soluzione, che la politica, costretta L a quell’equilibrio tra i vari partiti, non può dargli.
«Non si possono lasciare le persone in preda alla disperazione per un fatto di numeri – sostiene il professore -. Le famiglie in questione sono quasi duemila. E rischiano di finire in povertà. Duemila licenziamenti, questa è la cosa che temo».
Lo spettacolo rende trasparente la segmentazione dei ruoli del potere nel nostro “sistema” democratico: il governo, il ministro, l’industriale, ognuno nel suo posto di comando. Il sindaco vive con rabbia la sua sofferenza: ma non può intervenire con forza come desidererebbe. Sono i tempi lunghi della politica! Il “Ragioniere”, il padrone della Fabbrica Pignone, che nell’autunno del 1953, minacciava per i suoi duemila operai il licenziamento per i troppi debiti aziendali, non ne fa troppo mistero e cerca solo, utilitaristicamente, incontrando il sindaco di riavere il suo passaporto, che gli è stato requisito. Nel colloquio non vi è intenzione da parte sua di trovare una soluzione per la fabbrica occupata. Non ha rispetto per le sofferenze di cui i suoi duemila dipendenti, con le loro famiglie, sono vittima. Questa situazione non preoccupa il “Ragioniere”, che al colloquio porta un dolce, come mezzo per trovare un’intesa e riavere il suo passaporto.
La Pira non si scompone, con il suo spessore umano che niente può scalfire, e il “Ragioniere” si ribella e con piglio manageriale afferma: «Ciò che è mio mi appartiene. Le persone pensano che la ricchezza sia avere delle cose. Ma la ricchezza è decidere il futuro». Un principio capitalistico sfrenato, di cui solo il profitto è il motore esecutivo. Il professore valuta allora la pericolosità ormai evidente dei licenziamenti e non esita più a porre il problema al Governo, di cui il suo amico Amintore Fanfani è ministro dell’Interno. Prende carta e penna e scrive: «Amintore, mio caro. Ti scrivo a mezzanotte, non prendo sonno e sento la necessità di parlare con te a cuore aperto. La mia vocazione è una sola ed è strutturale! Pur con tutti i limiti che si vuole io sono per la grazia del Signore, un testimone del Vangelo. Questa luce va considerata la mia attività politica e questa è la mia vocazione di “testimonianza a Cristo”».
Il ministro degli Interni risponde da politico, inserendo in un contesto nazionale le preoccupazioni del dell’amico sindaco. Alle sue richieste imbarazzanti, il ministro risponde in modo istituzionale: «Mi parli in modo severo e non ne capisco le ragioni. Se credi di poter processare le mie intenzioni così, in cinque minuti…, non credere che io possa permetterlo».
Quando tutto sembra compromesso e la strada sembra chiusa a una soluzione positiva, il sipario aperto si chiude. Si riapre per un’altra scena politica, offrendo la realtà del superamento della crisi. Il ministro, nel silenzio, aveva lavorato ed il Governo aveva trovato la soluzione. Enrico Mattei, dopo il primo no a motivo della situazione improduttiva della fabbrica, con i suoi prodotti fuori mercato, decide di rilevarla, inserendola in un accordo produttivo ed economico con la Russia. Il Pignone è salvo! Le maestranze iniziano un nuovo cammino produttivo. Il silenzio invade la scena teatrale: «Mattei? Ci vedremo ancora?», chiede il professore, stanco, distrutto dalle tensioni umane, con in mano il plastico della fabbrica mentre barcollando lascia la scena. Lancia delle frasi: «Ho da fare, ho tante cose ancora da fare. L’Amore, sì, l’Amore Mattei, l’Amore a Dio». La politica dei compromessi ha perso. Ha vinto la costanza, la determinazione, il carattere forgiato dai valori cristiani di quegli uomini, i quali, pur inseriti in un sistema con molte lacune, si sono sentiti forti in quell’amore a Dio che supera tutto e vince su tutto.
Nell’epilogo a fine dramma, il presidente dell’Eni Mattei lancia la sua profezia: «Cittadini cari, vi sbagliate, non siamo noi il potere, non siamo altro che mani e spiriti che si specchiano l’uno l’altro per un po’ di vanagloria… E se avessi una figlia ora, piccolina, vorrei da lei un ultimo momento, un ricordo in me per lei, un lamento al mio funerale, quando l’aereo sarà caduto vorrei dicesse questo, poi sarò muto: “Piango il mio povero padre”; ma nessuno piange per me… Se solo piangessimo assieme. Ora basta. Abbiamo parlato troppo. A Dio».