Presentato il libro di Mancini su don Marrucci

Un uomo da non dimenticare

di Francesco Fisoni

Un libro meritorio – oserei dire “necessario” – quello di Andrea Mancini su don Luciano Marrucci, pubblicato nei giorni scorsi da La Conchiglia di Santiago, con il titolo «L’uomo della melagrana. Vita di Luciano Marrucci, poeta e prete».

Mancini è riuscito a zavorrare le testimonianze su DonLù prima che il vento del tempo e dell’oblio se le portasse via. Il suo libro non è tanto una biografia nel senso classico del termine, ma una scialuppa di salvataggio che rilancia la memoria dell’indimenticato parroco di Moriolo verso acque in cui navigare con più calma, per tornare a ragionare di questo straordinario intellettuale sanminiatese che, forse anche a causa della sua irregolarità, abbiamo un po’ troppo colpevolmente dimenticato. Il volume sull’Abbas Nullius (così amava esser chiamato don Luciano) è stato presentato sabato scorso nei locali della biblioteca comunale di San Miniato. E ascoltando le molte, affettuose testimonianze dei tanti che sono intervenuti, il nostro pensiero è carambolato a una celeberrima immagine di Bernardo di Chartres, quella dei «nani sulle spalle dei giganti». Perché, in un certo senso, aver conosciuto DonLù è stato un po’ come sfiorare un “gigante”.

Personaggio eccentrico in modo non calcolato, profondamente consapevole del suo valore ma anche candidamente indisciplinato, ha certamente complicato la vita a chi ha cercato, con l’acribia dell’archeologo, di ricostruire una sua linea biografica che potesse essere in qualche misura plausibile. È vero infatti che quando se ne vanno personaggi alla DonLù, si ha come la consapevolezza che tante cose non potremo più saperle, tante perle rimarranno precluse per sempre, e ti rammarichi per esserti perso l’occasione di strappargliele, magari quella volta che hai declinato quell’invito a ragionare a veglia davanti a gottino di amaro, perché avevi altro da fare. Con don Luciano non ti potevi mai rilassare, nel senso che, anche quando la conversazione sembrava incanalata negli argini di un discorso ordinato e regolare, era sempre pronto a sferrare una zampata, un’artigliata concettuale che, per acume, ti saziava e frastornava insieme. Gli aneddoti da riportare, da questo punto vista, sarebbero legione. Per me, che ho avuto la fortuna di frequentare la sua biblioteca personale (mi chiese di metterla a posto negli ultimi anni della sua vita), è sempre restato un mistero dove avesse maturato quella sterminata erudizione, a fronte soprattutto di un numero di volumi tutto sommato non eccezionale.

Citava spesso cose e autori che non figuravano nei testi in suo possesso nella ridotta di Moriolo, segno che nel suo pellegrinaggio terreno doveva aver attinto a chissà quali sacrari di sapere. Un giorno mi disse che uno dei suo desideri più grandi sarebbe stato quello di riprodurre con i suoi interlocutori le antiche contese dialettiche giocate a colpi di logica formale, quelle sfide in cui due autori si misuravano a tema, in un duello concettuale. E aveva in mente anche un modello ben preciso: la riedizione in chiave contemporanea della memorabile discussione tra Abelardo e Bernardo di Clairvaux, tenutasi nel 1140 a Sens, in Francia, alla presenza del re, con pubblico da finale di Champions. Evento di cui avrebbe saputo raccontarti dettagli minimi. Pirotecnico e fuori schema, era capace di spiazzarti con la fragranza del racconto, come quella volta che durante una lezione il suo discorso andò a parare sulla parabola del figliol prodigo: «Non potrete mai cogliere l’abiezione di questo figlio dissoluto e dissennato, che aveva sperperato l’eredità in bagordi e prostitute… Lui che poteva vivere da principe in un palazzo di re, si era ridotto a contendere le ghiande ai porci. Capirete quelle parole soltanto quando avrete assaggiato il sapore di una ghianda».

E confidò subito dopo come un giorno, per entrare pienamente in quella parabola, volle pasteggiare a sole ghiande, invitando anche noi a farlo. Confesso di averci provato… Non vi dico il disgusto, l’immangiabilità di quel frutto, qualcosa di semplicemente stomachevole. Ci rinunciai dopo il primo morso. Ebbene, don Luciano ci aveva fatto un pasto intero, una specie di suo originalissimo “Metodo Stanislavskij” virato sulle parabole del vangelo. Esisteva – spero esista ancora – una meravigliosa foto di don Luciano, che avrebbe troneggiato nell’ampia galleria d’immagini (alcune inedite) che Mancini è riuscito a mettere insieme nel suo libro. Una foto che credo in pochi abbiano visto. È degli anni ’50, scattata a una fermata della corriera a Roma, al tempo dei suoi studi alla Lateranense. Don Marrucci, avrà avuto 25-26 anni, vi campeggia quasi irriconoscibile – allora non portava ancora gli occhiali. Un uomo nel pieno del suo vigore, effigiato a mezzo busto di tre quarti, come nella più classica ritrattistica rinascimentale. Ha lo sguardo proiettato all’orizzonte, gli occhi lievemente fessurati in segno di profonda tensione morale. Uno sguardo fiero, di chi è profondamente consapevole del suo valore. Quando la vidi pensai subito che, se non si era messo in posa, chi gliela scattò fu capace di cogliere l’essenza della sua anima. Lì c’era già tutto, come nel seme c’è già la quercia. Qualcosa di simile, per capirci, allo sguardo di profonda dignità del San Giorgio di Donatello in Orsanmichele o più noto – del David di Michelangelo. Una foto che non si sa che fine abbia fatto e che vedremmo bene come copertina per una seconda edizione del volume di Mancini. La presentazione alla biblioteca sanminiatese è stata modulata a due voci da don Francesco Ricciarelli, successore di DonLù nella conduzione delle parrocchie di Moriolo e Corazzano, e da Roberto Cerri, ex direttore della biblioteca e dell’archivio storico del comune di San Miniato, che a Marrucci fece una lunghissima intervista all’inizio degli anni ’80, in gran parte ancor oggi inedita. Se don Ricciarelli ha sbalzato con finezza la dimensione “parrocchiale”, quasi quotidiana dell’Abbas, Roberto Cerri ha fatto fiorire con passione un discorso che ha colto don Luciano nella sua multiforme varietà d’interessi. Perché don Luciano è stato davvero tante cose: prete, scrittore, poeta, drammaturgo, uomo di teatro, editore, stampatore, mecenate, collezionista, blogger, contadino, uomo di mare, viaggiatore, appassionato di botanica, motori, armi antiche, scacchi, logica e… mi fermo qui per non tediare. Un uomo insomma dalla straordinaria curiosità enciclopedica. Il libro, che contiene in appendice anche una rassegna dei suoi scritti (quasi un piccolo testamento di bellezza), è stato realizzato con il contributo del Consiglio regionale della Toscana, che ha riconosciuto don Luciano degno di essere annoverato tra “I grandi toscani” nell’ambito della Festa della Toscana 2019.

Un personaggio che anche in virtù di questo meriterebbe davvero un parco letterario, magari proprio in quella solitudine abitata che è stata la sua Moriolo, dove tutto si presterebbe magnificamente a questo scopo. Un personaggio che oggi chiede a noi l’impegno e lo sforzo di ricercare e raccogliere i suoi documenti e il suo archivio, andati dispersi in diversi rivoli, dopo la sua morte nel novembre 2015. Anche a questo proposito ha confortato ascoltare le parole di Marzio Gabbanini, presidente della Fondazione Istituto Dramma Popolare, e della professoressa Laura Baldini, che hanno annunciato di voler recuperare, anche attraverso questo libro, la memoria e la produzione drammaturgica di don Luciano. Ripartiamo allora da qui, da queste pagine di rara sensibilità che Andrea Mancini ha voluto e saputo regalarci con questo suo testo.