GIUBILEO DELLA DIOCESI - I NOSTRI 400 ANNI

Il nostro Giubileo: Carlo Andreini, un testimone autentico del Vangelo

di Francesco Fisoni

Un cristiano a visiera alzata, un uomo dal pensiero netto e lucido, una di quelle persone di cui ci sarebbe tanto bisogno in tempi nevrotici e instabili come quelli in cui stiamo navigando. Questo era Carlo Andreini.

In modo discreto e senza clamore, Carlo ci ha lasciati tredici anni fa, il 3 giugno del 2009. Don Romano Maltiniti, che forse più di tutti gli è stato vicino e meglio lo ha conosciuto, testimoniava che ciò che più gli urgeva e gli stava a cuore, era la costante preoccupazione che la Chiesa non si conformasse alla mentalità del tempo. Avvertiva impellente il bisogno di etica nella politica e nella finanza (di professione faceva il bancario!), la sete di pace in tempi inquinati da guerre indiscriminate e generalizzate, l’ansia per l’unità dei cristiani. Soffriva per la solitudine dei giovani che percepiva orfani degli adulti e sorprendeva la sua capacità di leggere la realtà attraverso la filigrana sapienziale della Parola di Dio, per la quale nutriva un amore raro e acuto. Parola che è stata la vera fonte propulsiva della sua azione. Ma gli faremmo un torto grande se non dicessimo che Carlo era anche e innanzitutto un uomo buono, che non ha mai risparmiato mezzi e risorse (soprattutto personali!) per mettersi al servizio degli altri, soprattutto U dei più deboli e dei più fragili. E alla fine, al di là del suo pensiero e dei suoi incarichi pubblici (ha avuto responsabilità importanti all’interno della Caritas diocesana, oltre a essere stato per diversi anni consigliere di opposizione nel Consiglio comunale di San Miniato), era esattamente questo che convinceva in lui e ti conquistava. Si, Carlo era un uomo buono. Non può che spiegarsi in questi termini il motivo per cui ancora oggi, a tanti anni dalla sua scomparsa, manca tremendamente in chi lo ha conosciuto. Scriveva di lui un po’ di tempo fa Tommaso Giani: «Carlo era uno spirito inquieto: per lui non c’era il pane per i diseredati e il pane ‘per i miei familiari’… Per lui, come per Gesù, bisognava dividere tutto con tutti, anche a costo di sfidare la logica e la buona educazione. E così la moglie Rosetta se lo vedeva spesso arrivare a casa a Montopoli con la sua Panda con a bordo, oltre a lui, uomini ubriachi, malridotti, maleducati, sporchi… Gli ospiti per cui non c’era posto al Centro notturno di Santa Croce, di cui lo stesso Carlo era stato uno dei fondatori e animatori, lui se li portava a casa: non a mangiare, ma a viverci. “Io sbuffavo – racconta Rosetta – ma subito mi rimettevo ai fornelli e andavo a preparare un altro letto di fortuna per il nuovo ospite. ‘Almeno potevi avvertirmi mezz’ora prima!’, gli dicevo. Ma poi che volevi farci?! Questi ragazzi avevano bisogno di tutto, e noi ce li prendevamo. Alcuni per mesi, altri addirittura per anni interi. Le nostre feste di Natale erano coi familiari e con questi ragazzi del dormitorio.

Carlo li portava con noi anche in vacanza: diceva che i viaggi di piacere non gli interessavano, e nemmeno si divertiva, se insieme non c’era uno scopo, un sogno più grande da costruire”». È stato capace di portare la sua sete di giustizia e di bene in territori tradizionalmente sghembi a queste prospettive, come le banche e la politica. Per chi non lo ha conosciuto, possiamo testimoniare che proprio il suo rigore morale e la sua etica specchiata sono state le pietre angolari su cui erano impostati il suo temperamento e la sua attitudine alla relazione. Un galantuomo si sarebbe detto in altri tempi: Indro Montanelli parlava spesso e con ammirazione degli uomini con il “senso dello Stato”, ossia di quegli umili e oscuri “servitori” che fanno andare avanti le società umane. Nel piccolo e nel locale – potremmo dire nel suo “stato” – Carlo aveva esattamente queste caratteristiche. Peculiarità che biblicamente appartenevano anche ai patriarchi d’Israele… Se n’è andato troppo presto – a 61 anni – senza poter conoscere il pontificato di papa Francesco del quale sarebbe stato certamente un sincero e appassionato interprete.

Di lui stupiva la profondità di analisi. Da audace e caparbio autodidatta, non si azzardava mai a esprimersi su territori del sapere a lui sconosciuti (qui stava la sua umiltà, connotato della sua forza), ma potevi star certo che, presosi il tempo e colmato il vuoto, al confronto successivo era in grado di proporti un suo pensiero fuori schema, anche su dottrine a lui non congeniali. Un giorno ebbe a dirmi: «È facile assumere e riportare il pensiero altrui. Molto più difficile è costruire un proprio originale ragionamento proprio a partire da quello». Ma non vorrei risultare stucchevole in questo che potrebbe sembrare un bozzetto agiografico. Carlo se ne sarebbe arrabbiato e con ragione. Rimando allora ad un bel libro uscito postumo nel 2012, dal titolo «Senza fare rumore», che ne raccoglie gli scritti principali, restituendoci uno spaccato del suo articolato pensiero. Un testo dalla prosa precisa e godibile, che si scioglie a tratti in lirica struggente.

 Oggi Carlo – ne siamo certi – fa corona ai giusti, nel posto che Dio gli ha preparato da sempre. E ascolta, ai piedi del suo Signore, quella beatitudine che, duemila anni orsono, il Maestro pronunciò pensando anche a lui: «Beati voi che avete fame e sete di giustizia, perché sarete saziati». Quella giustizia (quanto l’ha desiderata!) che affama i giusti, è adesso il suo cibo per l’eternità.