Omelia per l’Apertura dell’Anno Giubilare

San Miniato, Cattedrale ore 17
29-12-2024

Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe 

(Letture: 1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52)

 

Omelia pronunciata a braccio

Mi ero preparato un’omelia ma voglio dire altre cose: quella che ho scritto la leggerete su «La Domenica» o sul sito della diocesi. Abbiamo iniziato questo rito e sembravamo anche noi un po’ come Maria e Giuseppe che andavano a Gerusalemme in pellegrinaggio (cfr. Lc 2,41-52). Loro non dietro a una croce come noi, ma avevano con sé Gesù, e andavano al Tempio, perché il Tempio  – l’abbiamo sentito anche nella prima lettura (1 Sam 1,20-22.24-28) – era il luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.  Abbiamo bisogno di luoghi, abbiamo bisogno di gesti, di riti, anche solenni, come quello che stiamo facendo. A volte però la solennità ingessa un poco, ci fa cioè diventare un po’ tutti “squadrati”. Abbiamo bisogno di queste cose, luoghi e riti, ma dobbiamo sempre andare all’essenziale. L’essenziale: per esempio quel giorno nel Tempio di Gerusalemme, una costruzione straordinaria, una delle meraviglie dell’antichità, costruita da Erode (e l’aveva costruita non per far grande il Signore, ma per farsi grande per sé, perché non era Ebreo e quindi voleva ingraziarsi gli Ebrei, e comunque i soldi glieli avevano dati i Romani) era un luogo imponente; ma chi avrebbe detto che il “Padrone di casa” di quel luogo era quel bambino, quel ragazzino di 12 anni? Si accorgevano che diceva cose straordinarie, ma solo Maria – e anche lei forse solo davanti alla risposta un po’ tagliente di Gesù – si rendeva conto che era lui Colui che tutti cercavano in quel luogo, Colui che tutti cerchiamo, perché ne abbiamo bisogno, Colui che è la nostra speranza.

Il Papa, aprendo la porta santa nel carcere di Rebibbia, ha detto che la speranza è come un’ancora (è l’immagine antica della Lettera agli Ebrei), è l’ancora lanciata sulla terra e noi siamo in mare, in mezzo ai flutti, ma quella corda tesa non bisogna lasciarla. È la corda della nostra certezza, la certezza che a tutte le nostre debolezze e a tutti i nostri sbagli, il Signore ha risposto prendendoli su di sé. Il gesto che abbiamo compiuto dice questa speranza, di cui è segno questa Croce, che rimarrà qui in Cattedrale per tutto l’anno, a ricordarci che Gesù ha preso su di sé tutto il nostro male. Continua a prenderlo su di sé anche oggi, per questo Lui è nostra speranza e per questo noi siamo pellegrini, dobbiamo metterci in cammino, come Maria e Giuseppe, e andare. E dobbiamo entrare nel tempio, dobbiamo dire quelle preghiere e chiedere l’indulgenza, e confessarci e ricevere l’Eucaristia; abbiamo bisogno di queste cose, perché abbiamo bisogno di Te, Signore! Abbiamo bisogno di te, Gesù, e ne ha bisogno il mondo. E la speranza del mondo – che è Gesù – siamo noi che l’abbiamo “in consegna”. Se non la testimoniamo noi, il mondo può continuare a cercare le proprie speranze, sempre effimere, sapendo già prima che tanto non saranno realizzate; tante persone si perderanno nelle spirali dell’odio, della violenza, della guerra, dell’ingiustizia, della perdita del tempo (e della vita), dell’incertezza sul significato e del valore di quello che siamo.

A noi, per grazia, è stato dato di conoscere Gesù. Perciò per noi, farci pellegrini di speranza non vuol dire andare alla “macchinetta dell’indulgenza” a vincere il Paradiso, con poca spesa (perché tanto il Signore è così grande che ce lo dà, basta dire una piccola preghiera, confessarsi e comunicarsi…). Noi quest’anno dobbiamo farci “pellegrini di speranza” anche nel senso che dobbiamo portarla noi a tutti. Perciò questo anno implica il desiderio e la richiesta, come mendicanti davanti al Signore, che cambi il nostro cuore, che ci converta dal profondo, per poter essere segno di speranza e portare la speranza di Gesù, lì dove il Signore non è conosciuto. Perciò ci dobbiamo fare pellegrini per andare verso Gesù, e ci dobbiamo fare pellegrini per portare Gesù a tutti coloro che l’attendono, magari senza saperlo. Noi sappiamo che l’attendono, in quanto il cuore dell’uomo è fatto per Gesù. Perciò quali desideri devono rifiorire in noi? Il desiderio di perdonare, perché siamo perdonati, di riconciliarsi laddove c’è bisogno di riconciliarsi e di lasciar perdere tutti i pensieri cattivi che possiamo avere sugli altri. Davvero che per ognuno di noi sia un anno in cui tutto può ricominciare, non per nostra volontà, ma per grazia sua; e sia questo il segno che siamo chiamati a dare a tutti. Che siamo pellegrini che pregano perché il mondo possa cambiare, guardando a Gesù. A noi non è chiesto di trasformare il mondo: ci è chiesto di essere strumenti della trasformazione del mondo, poi è il Signore che lo fa, e se ci fa passare attraverso certe strettoie nella vita, non dobbiamo pensare che siano sconfitte, ma che proprio attraverso quelle strettoie nasceranno cuori nuovi e una umanità nuova.

Stamattina quando ho aperto le finestre, in queste giornate bellissime che qui a San Miniato ci fanno vedere lontano fino all’orizzonte, stava ancora per uscire il sole. Allora ho aspettato di vederlo sorgere. Si vedevano le scie degli aerei nel cielo che sembravano scie d’oro; poi a un certo punto, è uscito il primo raggio di sole da dietro le colline e poi è uscito il sole pieno e tutto è stato illuminato. Ecco noi siamo esattamente in questo momento del crepuscolo: ma non il crepuscolo del tramonto, ma il crepuscolo dell’alba, l’inizio dell’aurora in cui il Signore si vuol manifestare. È venuto, nella notte di Betlemme, ora è qui fra noi e vuole manifestarsi, perché questa luce possa illuminare il mondo e far ritrovare a tutti gli uomini il senso, le misure vere delle realtà, il colore delle cose, cioè il loro significato. Vuole riempirci di quella speranza che si trasforma in amore, l’unica vera testimonianza che siamo chiamati a dare: le opere di misericordia, corporale e spirituale. Per saperle basta andare al capitolo 25 di Matteo: le opere di misericordia sono quelle su cui saremo giudicati nel giudizio finale. Andiamolo a rileggere il capitolo 25 di Matteo e quest’anno chiediamo al Signore che attraverso l’offerta della nostra povera e piccola vita personale e soprattutto come comunità cristiana, come comunità diocesana, possiamo esserne testimoni, affrettando così l’aurora della luce di Gesù.

Ringrazio tutti voi che siete qui, in particolare tutti i sacerdoti, che in questi giorni hanno avuto tutti molto più da fare del vescovo: ho scoperto che a fare il vescovo si lavora tanto tutto l’anno, ma nei giorni delle grandi feste si lavora meno di quando uno è parroco, e i parroci sono sempre sul pezzo, mentre il vescovo ha sempre qualcuno che gli prepara le cose. Li ringrazio per essere qui, perché la loro presenza è il segno di quella comunione, che viene prima di qualunque cosa che noi possiamo fare o pensare. È una comunione che ci è donata e se la viviamo e la manifestiamo, anche solo così, essendo insieme, in questo inizio dell’Anno Giubilare, qualcosa accade, accade qualcosa che il Signore fa attraverso il nostro sì.

 

+ Giovanni Paccosi

 


 

Omelia scritta

Nella luce del Natale, in questa festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, inauguriamo l’Anno Santo, il Giubileo, che il Papa ha iniziato con l’apertura della Porta Santa nella notte di Natale. Diceva Papa Francesco: «Sorelle e fratelli, con l’apertura della Porta Santa abbiamo dato inizio a un nuovo Giubileo: ciascuno di noi può entrare nel mistero di questo annuncio di grazia. Questa è la notte in cui la porta della speranza si è spalancata sul mondo; questa è la notte in cui Dio dice a ciascuno: c’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi. Ma non dimenticatevi, sorelle e fratelli, che Dio perdona tutto, Dio perdona sempre. Non dimenticatevi questo, che è un modo di capire la speranza nel Signore” (Papa Francesco, Omelia nella notte di Natale 2024).

Pellegrini di speranza: nel motto di questo Giubileo c’è l’immagine di persone che non rimangono ferme, ma si mettono in cammino: anche Maria e Giuseppe, con Gesù, si erano messi in cammino, pellegrini verso il Tempio di Gerusalemme per vivere con fede la festa di Pasqua. Andavano alla casa di Dio, e avevano sulle labbra e nel cuore le parole dei Salmi, tra cui quelle che abbiamo ripetuto poco fa: «Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! L’anima mia anela e desidera gli atri del Signore. Beato chi abita nella tua casa: senza fine canta le tue lodi. Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore». La basilica di San Pietro, questa Cattedrale, le Chiese Giubilari, per un anno diventano luogo di grazia, dove ricevere l’indulgenza che ci libera, per pura misericordia, del peso delle nostre colpe. Lui abita il Tempio, perché è la sua casa, come fece capire ai suoi genitori appenati quel giorno ed è Lui, Gesù, è la fonte di questo fiume di grazia a cui vuole che attingiamo. E non è solo: con Lui, nel giubileo, sono tutti i Santi che ci donano i frutti della loro disponibilità alla grazia. Con Lui è la Chiesa, siamo noi. Comprendiamo perciò che il nostro bisogno di conversione non è in primo luogo una questione privata, mia, per la salvezza della mia anima, come si diceva una volta. La nostra conversione riguarda la possibilità che la Misericordia, che Gesù ha svelato come il volto segreto del Padre, illumini e riempia di speranza il mondo. «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato». Siamo pellegrini di speranza, e il nostro pellegrinaggio ha due direzioni. Camminiamo verso Gesù, per adorarlo, per convertirci a Lui, riconoscendo che abbiamo bisogno di Lui per non perdere la nostra vita. Ma il nostro essere pellegrini di speranza in quest’anno è chiamato a tradursi in un movimento: che «ci amiamo gli uni gli altri» L’amore a cui siamo chiamati ci fa scoprire debitori verso chi soffre, chi è dimenticato, povero, verso chi attende il nostro perdono, verso chi ha perso la speranza.

Iniziamo un anno di riconciliazione nelle nostre famiglie, un anno per donare noi stessi agli altri: le “opere di misericordia” elencate dal capitolo 25 di Matteo in cui Gesù parla del giudizio finale, ci interpellano. La nostra Diocesi promuove il pellegrinaggio a Roma il prossimo 11 ottobre con tutte le diocesi Toscane, ma come sarebbe bello se tutte le nostre comunità potessero prepararsi a vivere quel giorno provando – cito il Papa – a «tradurre la speranza nelle situazioni della nostra vita. E questo è il nostro compito: tradurre la speranza nelle diverse situazioni della vita. Perché la speranza cristiana non è un lieto fine da attendere passivamente, non è l’happy end di un film: è la promessa del Signore da accogliere qui, ora, in questa terra che soffre e che geme. Essa ci chiede perciò di non indugiare, di non trascinarci nelle abitudini, di non sostare nelle mediocrità e nella pigrizia; ci chiede – direbbe Sant’Agostino – di sdegnarci per le cose che non vanno e avere il coraggio di cambiarle; ci chiede di farci pellegrini alla ricerca della verità, sognatori mai stanchi, donne e uomini che si lasciano inquietare dal sogno di Dio, che è il sogno di un mondo nuovo, dove regnano la pace e la giustizia. (…) A noi, tutti, il dono e l’impegno di portare speranza là dove è stata perduta: dove la vita è ferita, nelle attese tradite, nei sogni infranti, nei fallimenti che frantumano il cuore; nella stanchezza di chi non ce la fa più, nella solitudine amara di chi si sente sconfitto, nella sofferenza che scava l’anima; nei giorni lunghi e vuoti dei carcerati, nelle stanze strette e fredde dei poveri, nei luoghi profanati dalla guerra e dalla violenza. Portare speranza lì, seminare speranza lì. Il Giubileo si apre perché a tutti sia donata la speranza, la speranza del Vangelo, la speranza dell’amore, la speranza del perdono» (Papa Francesco, Omelia nella notte di Natale 2024).

Che tra un anno ci possiamo ritrovare pieni di gioia, vedendo che questa speranza germoglia ancora di più in mezzo a noi e nel mondo.

 

+ Giovanni Paccosi