Si è concluso venerdì 19 maggio il ciclo di appuntamenti «La Chiesa di fuori» organizzato dalla Caritas diocesana. Ultimo testimone a essere invitato: don Gino Rigoldi, che ha raccontato i suoi oltre 50 anni spesi al servizio dei carcerati. Una vita ricca di ricordi e aneddoti quella del prete milanese, come l’affettuoso dissenso che lo lega da sempre al suo ex alunno Matteo Salvini.
Don Gino Rigoldi è un “giovanotto” di 84 anni che racconta la sua vita con impeto e passione. Cappellano per oltre 50 anni nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, don Gino è anche fondatore di «Comunità Nuova», una onlus che si occupa di tossicodipendenze e disagio giovanile. Ospite a Ponsacco di Caritas, per l’ultimo degli appuntamenti della rassegna «La Chiesa di fuori», ha catturato l’uditorio con il suo eloquio semplice e diretto, condito di tanta cordiale ironia.
Guidato dalle domande della scrittrice e giornalista Mimma Scigliano, don Gino ha compresso in un’ora e mezza le ragioni di una vita spesa al servizio dell’altro; “un altro”, in questo caso, ancor più svantaggiato, perché carcerato o tossicodipendente. La serata era organizzata in collaborazione con il Cnca Toscana (Coordinamento nazionale delle comunità accoglienti), di cui don Gino è stato tra i fondatori.
«Sono entrato in seminario a 19 anni – ha confidato -. Dopo gli studi di teologia il vescovo mi chiamò per dirmi che non ero adatto a fare il prete. Mi mandò allora a fare servizio in un collegio arcivescovile. Lì c’erano 120-130 adolescenti. Iniziai così a stare con i giovani. Nel giro di poco il direttore, visto che ero capace di animare questi giovani, chiamò il vescovo e gli disse che avevo tutti i requisiti per diventare sacerdote. E così sono diventato prete, saltando tutti i passaggi dell’ordinazione: da seminarista a prete».
Le prime esperienze come vice parroco nella parrocchia di Metanopoli, alle porte di Milano, furono di grande fermento ma gli andavano strette. Poi, nel 1972, il carcere minorile Beccaria, da privato diventa pubblico, e viene fatta richiesta per un cappellano. Don Gino non ci pensa due volte e chiede di poter andare lui: «Alla richiesta il mio parroco tirò un sospiro di sollievo, il vescovo tirò un sospiro di sollievo e anche io tirai un sospiro di sollievo… sono lì ormai da più di 50 anni», dice scherzando.
Poi il racconto va al sodo: «Fin dal primo giorno ho abitato lì, in carcere. Per i primi venti anni ho visto passare da quelle celle tra i 1000 e i 1200 ragazzi all’anno. Un numero impressionante. Ricordo ancora il mio primo giorno al Beccaria: finiva la condanna un ragazzo di nome Angelo. Gli chiesi dove sarebbe andato a stare di casa dal giorno dopo. Mi rispose che non aveva casa e che avrebbe scassinato un’auto per dormirci dentro… io avevo due camere da letto nell’appartamento che mi era stato riservato in carcere. Una la diedi a lui. Dopo un mese, eravamo una trentina in quell’appartamento. Lì abbiamo compreso che così non poteva funzionare». Ed è allora che nasce un progetto coraggioso e originale, quello delle cosiddette “comunità alloggio”: «Affittavamo appartamenti per 5-7 ragazzi che erano appena usciti dal carcere e mettevano a vivere con loro due educatori… con grande gioia dei vicini di casa», ride. Poi confida che tra lui e i suoi collaboratori sussiste la cosiddetta “regola dello sguardo”: «L’hai visto tu? Allora tocca a te prenderti cura di quella persona, di quella situazione…». E aggiunge serio: «Non bisogna avere deliri di onnipotenza quando si lavora in questo campo, però dal canto mio, ho constatato che Dio c’è e che certe cose impossibili poi diventano possibili. Fare gli splendidi da soli può anche essere entusiasmante, ma alla fine o crei una comunità di persone, che condivide tempo, competenze e passione o vai poco lontano». E “Comunità Nuova” ad esempio, con 105 dipendenti e tanti volontari che vi gravitano attorno, è oggi il paradigma più emblematico di questa voglia di fare rete, dando vita a gruppi solidali e motivati.
«L’importante è non aver paura – aggiunge don Gino -. Non avere mai paura delle persone. I ragazzi che io vedo in carcere portano talvolta sulla coscienza reati tremendi. Per fortuna io ho chiaro che a me non tocca giudicarli. A me è chiesto di ascoltarli e capire perché sono lì. Di questo i giovani restano stupiti: vedere che c’è un adulto che non ha paura di loro, che non intende giudicarli, ma cerca solo di capire per dare una mano, questo li conquista. Ne è dimostrazione il fatto che in più di 50 anni non mi è mai arrivato “un vaffa” da questi ragazzi, neanche durante qualche rivolta».
Parlando poi del conflitto generazionale, cui lo stimola a riflettere Scigliano, dice: «Oggi i giovani sono molto più confusi di un tempo. Manca la figura del padre e non ci sono adulti di riferimento. Un genitore dovrebbe pensare a un figlio non come a un’impresa che deve produrre (andare bene a scuola, vestire bene, avere un linguaggio corretto…). Un ragazzo e una ragazza dovrebbero innanzitutto imparare a coltivare le relazioni con gli altri. Imparare a esser sinceri e a fare comunità, dopo di che gli si può chiedere anche di fare bene il loro dovere. Ma oggi i giovani stanno innanzitutto cercando di capire chi sono e lo possono capire solo stando in rapporto con gli adulti».
Quasi in finale racconta del suo rapporto con Matteo Salvini che conosce da trent’anni: «È stato mio alunno, ci vogliamo bene e ci sentiamo ancora per telefono, ma non siamo quasi mai d’accordo». Il secondo decreto Salvini, quando era ministro dell’interno, impediva ai richiedenti asilo per motivi umanitari di ottenere la residenza in Italia, con impossibilità a seguire di ottenere un lavoro. In pratica la persona dopo un anno e mezzo era soggetta ad espulsione. Don Rigoldi, con l’aiuto dell’amico costituzionalista Valerio Onida, ricorse alla Corte costituzionale ottenendo ragione e il decreto Salvini è stato tagliato a metà.
L’ultimo goliardico rimprovero che don Gino ha fatto al suo ex alunno, quando era ministro dell’Interno, è stato durante un incontro alla fondazione don Rigoldi. Salvini ha ricevuto dal suo vecchio insegnante una maglietta con su scritto: “Dio esiste ma non sei tu. Rilassati”. «Bisogna avere buon senso – aggiunge raccontando quell’episodio – e soprattutto quando una legge ritieni sia sbagliata, ti devi impegnare per farla cambiare». «Alla fine però non vorrei passare per benefattore; il mio impegno si è sempre concentrato sul dare strumenti, perché ogni persona che incontro (in tutta la vita ha incrociato quasi 40 mila giovani carcerati) diventi responsabile della propria esistenza. Il mio allora è stato un contributo alla giustizia più che alla solidarietà». Dal 26 giugno al 2 luglio i ragazzi che partecipano al progetto «Le 4 del pomeriggio», saranno insieme a Tommaso Giani alla comunità Kayros a Milano da don Claudio Burgio, il successore al Beccaria di don Gino.