Il 14 agosto scorso è morto Riccardo Cardellicchio, da tutti giustamente ricordato come un grande professionista del giornalismo anche di carattere locale, «con un impegno – come diceva lui a proposito di se stesso – nella cronaca di ogni giorno di una fetta di regione che è il cuore del cuore della Toscana». Da qui partiva il suo trasformarsi in cronista d’archivio per raccontare – sempre visti dal basso – la storia di grossi avvenimenti del passato: la spagnola, il colera, il fascismo, studiando i quali ha prodotto moltissimi libri di valore assoluto. Riccardo aveva tra l’altro partecipato alla fondazione de Il Poggio, il gruppo culturale di quello che si potrebbe chiamare “cattolicesimo del dissenso”, che operò a Fucecchio dal 1964 fino al 1969, incarnando con spirito comunque di dialogo un’intensa attività culturale. Al Poggio ha dedicato un bel libro Aldemaro Toni, uscito con le sue edizioni di Erba d’Arno nel 2013. Vi si racconta di questo gruppo di giovani fucecchiesi, tra i quali naturalmente Cardellicchio, e dei loro rapporti con un prete importante come don Giancarlo Ruggini. Il periodo successivo per Cardellicchio, ancora in ambito cattolico, si condensa in alcune esperienze ancora tutte da studiare come “Questatoscana” o il giornale “Opinioni” e lavorando comunque anche sulla stampa locale, soprattutto a “Il Tirreno”, per il quale fu in più occasioni caporedattore.
Dal mio punto di vista non posso però non ricordarlo come importante autore di teatro: tutto il nostro lungo rapporto si è sempre consumato per atti teatrali. Riguardando indietro, scopro appunto quanto è stato il suo impegno nei miei confronti, a partire dal 1975-76, quando mi affidò – avevo poco più di vent’anni – la redazione di un numero speciale del periodico “Questatoscana”, che lui dirigeva. Si trattava delle schede e delle presentazioni del teatro che sarebbe andato in scena al riaperto Verdi di Santa Croce.
Grandi spettacoli, con i nomi di registi come Gabriele Salvatores e Raffaele Maiello, con messinscene straordinarie che avevano autori come Ariane Mnouchkine o Bertolt Brecht, ma anche con altre presenze straordinarie, come quelle di Giuseppe Bertolucci e Roberto Benigni. Proprio io avevo scoperto Benigni, a recitare nel cortile di San Marco a Firenze, invitandolo a lavorare nel nostro teatro I appena riaperto. Roberto venne (per una cifra che mi vergogno a ripetere qui), con il suo capolavoro «Cioni Mario di Gaspare fu Giulia», che qualcuno di noi imparò a memoria e che influenzò tanta parte del nostro teatro. Insomma Cardellicchio, con la discrezione che l’ha sempre contraddistinto, è sempre stato dietro le mie spalle, anche se era più grande di me, essendo nato nel 1939 a Fucecchio.
Riccardo credeva in un giornalismo d’azione, che poteva corrispondere anche con il teatro, almeno con il mio teatro. Per questo la mia riconoscenza nei suoi confronti è davvero grande, non è che senza di lui non mi sarei ammalato di teatro, ma certo lui ha influenzato molto il mio procedere e le mie pene, poi anche i miei successi, il mio piacere.
In particolare nell’avermi messo a disposizione quello che è stato il suo capolavoro, cioè la ricerca sull’eccidio del padule di Fucecchio, uscita nel 1974 con la Libreria Editrice Fiorentina e intitolata «L’estate del ‘44», un minuzioso lavoro d’inchiesta che gli fece riscoprire gli efferati crimini compiuti dai nazisti in un territorio bellissimo quanto a natura, ma pieno di luoghi insidiosi, dall’acquitrino ai fanghi, ai barchini che scivolavano sulle acque basse. Riccardo mi ha donato il suo libro, ma soprattutto mi ha raccontato la sua ricerca e suggerito i tanti che hanno scritto o attraversato quei luoghi, da Annibale cartaginese che vi prese la cispia, a Renato Fucini, fino a Enzo Fabiani, che scrisse una sua “Lamentazione” proprio su quegli stessi temi. Il testo che ne nacque fu rappresentato in tutti i luoghi del padule (e naturalmente anche da altre parti), per oltre centocinquanta repliche. Fu il nostro più grande successo, con la mia regia e con tre attori bravissimi, Andrea Giuntini, Monica Mori, Stefano Masoni e le bellissime musiche di Tommaso Nobilio. Uno spettacolo molto semplice, che si adattava a qualsiasi luogo e che riusciva a commuovere e a conquistare gli spettatori, proprio per la sua natura di oratorio, dove le voci si muovevano in un eccezionale impasto sonoro, che non temeva la ripetizione, anzi ci si muoveva dentro, con momenti di forte suggestione. Riccardo ne è sempre rimasto conquistato, anche in occasione di altre riprese, con altri registi e attori, anche una abbastanza recente, fatta venticinque anni dopo la prima, che fu appunto nel 1994.
Il mio rapporto con Cardellicchio non si limita naturalmente solo a «L’eccidio» (questo il titolo dello spettacolo e dei libri che sono stati editi dalla casa editrice Titivillus, appunto nel 1994 e nel 2019), dopo questa esperienza ce ne sono molte altre, una intitolata «Il vento delle cavalle», a partire dai testi di Giangiacomo Micheletti, curati ancora da Cardellicchio per le Edizioni dell’Erba (1995), fino ad un altro capolavoro, intitolato «Gli uomini della contessa», anche stavolta trasformato in teatro, in uno spettacolo che mi ha segnato, intitolato «Matilde», cioè Matilde di Canossa. Uno spettacolo con le splendide musiche di un maestro del teatro lirico, come Aldo Tarabella e una sola attrice, che si chiamò all’inizio Loretta Morrone (importante il suo debutto al Teatro della Pergola di Firenze), poi per anni Roberta Geri. Due donne molto diverse, ma che davano allo spettacolo qualcosa di magico. «Matilde» andato in scena tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni del 2000, fu un lavoro davvero importante, amato da moltissimi spettatori (soprattutto da spettatrici, che riconoscevano nella terribile vicenda vissuta dalla protagonista, anche qualcosa della propria vicenda umana).
Apprezzatissimo tra l’altro da un critico importante come Nico Garrone, che lo vide in una serata mitica al Teatro di Quaranthana a Corazzano.
Il rapporto tra Cardellicchio e il teatro, non si limita naturalmente ai miei lavori, anche se essi rappresentano una parte essenziale della sua esperienza, scrivo questo riflettendo sul perché avesse scelto l’azione scenica come elemento narrativo e soprattutto quando questa è diventata una parte, che direi principale, del suo impegno. Voglio cioè dire che se lui ha dato moltissimo al teatro, anche il teatro gli ha restituito molto. Cardellicchio è stato, almeno fino ad un certo punto, un grande giornalista, che prestava al teatro il frutto del suo lavoro. Il teatro, cioè io e i miei collaboratori, ci intervenivamo con rispetto, ma anche senza sudditanza alcuna, mi ricordo che abbiamo sempre usato la sua parola come se fosse ‘musica concreta’, trasformandola, tagliandola, ripetendone spesso interi passaggi, stando spesso più attenti al risultato scenico che a quello storico giornalistico. Riccardo ci ha sempre lasciato fare, non ha mai detto una sola parola su quello che è stato il nostro lavoro e sui suoi risultati, sempre più che soddisfacenti. Questo almeno fino a che ha lavorato in rapporto con il mio gruppo (per centinaia di repliche dei nostri spettacoli), solo in una fase successiva il teatro lo ha vinto in prima persona e allora ha scritto dei testi che avevano una maggiore autonomia, tra questi ricordo una bellissima versione di Andrea Giuntini relativa a «La bella Elvira», cioè il delitto di Toiano, un’altra vicenda del passato, che Cardellicchio aveva sempre tenuto tra le sue cartucce e che Giuntini restituiva con eccezionale maestria.
Ciao Riccardo, come diciamo in teatro: – Il pranzo è servito!