Abbiamo tre stelle a cui guardare: elemosina, preghiera e digiuno. Con questi riferimenti ben chiari in mente e dentro il nostro cuore possiamo davvero incominciare ad orientarci e navigare nell’immenso oceano quotidiano per 40 giorni, proprio come fece Gesù nel deserto. Dobbiamo ben sapere che i luoghi “deserti” non sono soltanto le distese di sabbia kilometriche, ma lo sono anche per lungo e per largo i ghiacciai o comunque lo sono i luoghi dove è difficile sopravvivere e nei quali dobbiamo imparare a vivere tornando all’essenziale. Noi partiremo per questo viaggio, ognuno nella propria imbarcazione. Troveremo difficoltà in mezzo all’oceano, le prove si faranno presenti e, senza cercarle, si presenteranno dinanzi a noi. Dovremo farci trovare pronti alle avversità come: tempeste, pesca magra e giornate senza vento in poppa.
Di fronte al solito ritmo ed uno stile di vita abitudinario siamo invitati con viva partecipazione a queste pratiche quaresimali proposte da Santa Madre Chiesa che affondano la propria origine intorno all’anno mille. Questi allenamenti del corpo e dello spirito desteranno in noi una sana inquietudine ed una ricerca del bene al di fuori della propria routine giornaliera per così propendere verso altre realtà, magari vicine alla nostra o probabilmente più familiari di quanto si possa credere. Per accorgerci di tutto ciò necessitiamo di un movimento fondante nella nostra fede: rientrare in noi stessi. Proprio come fece il patriarca Abramo, che pareva essere al di fuori dei canoni di Dio. Era un pastore politeista e non nel pieno delle proprie forze, ma si riconosce nel messaggio di Verità dell’unico Dio, ovvero dell’unico bene a cui tendere per vivere nell’unione e non nella divisione, pronto a mettersi in cammino per Qualcosa di grande, all’altezza del desiderio di bene che abita ogni uomo, camminando insieme alla sua famiglia, alla sua tribù nomade, a chi è legato, andando incontro a Qualcuno (con la maiuscola) di immenso e Qualcosa di grande.
Ecco, la parola elemosina deriva da un verbo greco «elemosyne», da quella radice deriva la parola «eleéo» che dovremmo conoscere bene, perché arriva proprio al nostro «eleison» domenicale e feriale.
A questa parola non dovremmo dargli l’accezione a cui siamo abituati da fin troppo tempo, ovvero ad una sorta di «lasciar cadere qualcosa verso il basso» o porgere tiepidamente la monetina al mendicante fuori del supermercato, ma va inteso come «avere pietà», «compatire», «patire con», insomma avere «compassione». Il nostro donare un bene, materiale o più che sia, può e deve farsi dono e non soltanto donazione. Entriamo in questa sottile ma grande differenza. Fare donazioni può comportare il dare qualcosa (o qualcosina) e finirla lì, magari anche con sufficienza o senza altri tipi di impegni personali. Con questo non voglio criticare la nobilissima pratica della donazione ma vorrei provocare una sana domanda: «Io posso fare di più di quello che do via?», «Quello che do via è il mio superfluo?».
E qui entra in scena la parola «dono» ovvero riuscire a farsi prossimo all’altro anche con qualcosa che vada al di là della filantropia, qualcosa che arrivi alla gratuità, alla libera offerta di se stessi con le proprie forze ed energie, con un ascolto dedito o un abbraccio caloroso, una parola coraggiosa o una carezza rigeneratrice.
Questo è ciò che può cambiare il sentire di una brutta giornata, nessuno escluso (immagino). Adesso indirizziamo il nostro sguardo verso la lucente preghiera. La nostra rotta è quella buona, perché dobbiamo comprendere questo: come il corpo ha bisogno di esercizio fisico per mantenersi allenato e pronto alla giornata così come alla gara sportiva, anche l’esercizio dello spirito ha bisogno di allenarsi per percorrere la vita in maniera «piena» e non «vuota», per «larghezza» e non solo per la «lunghezza» della stessa. Questo binomio mente/corpo è fondamentale non solo per i nostri mezzi ma, soprattutto, ci permette di puntare la bussola verso fini che davvero contano. Se i Sacramenti sono come il nostro cibo, che ci permetto di continuare a vivere con gusto la nostra fede, allora la preghiera è come l’aria.
Prima ancora del cibo dovremmo tornare ad imparare a pregare con spontaneità, con creatività e passione, leggendo una preghiera che ci è rimasta impressa meditandola o anche con il semplice e nobilissimo lumino, bello per gli occhi grazie al fuoco che emana.
Però dobbiamo ricordarci con gioia la premessa più importante rivelataci, ovvero sapere che Dio non è qualcosa delquale parlare, ma un Babbo alquale parlare. Il nostro abbandono alla preghiera sarà differente (vedrete!) e magari non ne usciremo illesi, come Giacobbe nel deserto che combatté con un Angelo di Dio, con Dio stesso quindi, con colui che è a immagine e somiglianza tua. Il giorno dopo lo scontro infatti zoppicava ed il suo nome da quel momento in avanti fu Israele, «colui che lotta contro Dio» potremmo tradurre. Sì, non dobbiamo aver paura di domandare di sé stessi e per gli altri di fronte al Signore, dovremmo tornare a puntare il cannocchiale su Giobbe e alla sua potente ricerca, ma questa sarà per un’altra storia.
Infine arriviamo al tanto sentito digiuno. Dico «sentito» perché mi sentirei quasi di dirvi di guardare ai vascelli vicino al vostro, al kippur ebraico praticato anche dai non praticanti e al ramadan islamico. Questo sentire il cibo come patria comune dell’uomo è fondamentale per la crescita umana e spirituale. È un tempo dove siamo invitati, come Cristiani, a tornare al fondamento della nostra Liturgia, ovvero avvalorare il tempo della mensa e di tutto quello che ne è legato di conseguenza: Il rispettare il cibo, il condividerlo, il gustarlo nel silenzio o nel dialogo, imparando il vero senso di amicizia e comunione. Togliamo per aggiungere il vero alla nostra bocca, perché non di solo pane viviamo. Sarà una spina nel fianco che ci metterà in tensione benevola verso chi non ha il lusso di tre pasti giornalieri, come di chi non ha la gioia di aver occupati più posti a tavola, o magari neanche di poterne uno per sé stesso.
È un modo per sentire la realtà più vicino, è un modo per vivere lieti anche nell’abbondanza, è un modo per godersi anche quel poco che abbiamo.
Si può pregare con il corpo oltre che con la bocca e la nostra. liturgia ce lo ricorda molto bene. Adesso nel concludere vorrei consigliare di non preoccuparvi nemmeno più del dovuto, non vivete nella mortificazione, ma in una vivificazione della vostra persona, solo così funzionerà, solo così navigheremo lieti in questo immenso mare che la Bibbia racchiude.
Sempre più navigheremo la Parola sempre più terre scopriremo perché in ogni porto approderemo, troveremo l’immenso tesoro della vita stessa.
Che sia una buona rotta per il vostro viaggio.