Riflessioni

Storia delle vaccinazioni, tra scienza e solidarietà

di Renato Colombai

Si fa presto a dire “vaccino”. Si fa presto a dire anche: la pandemia da Covid-19 ha i giorni contati. Il vaccino, o meglio, i vaccini sono formidabili presidi di salute, ma non sono entità perfette. Sono “sistemi” complicati e complessi, perciò delicati. Sono molti i fattori a cui fare attenzione per non compromettere le proprietà di un vaccino o invalidare il processo di vaccinazione.

Tra i fattori che qualificano le proprietà di un vaccino, vi è la capacità di resistere a condizioni ambientali variabili, a cominciare da temperature elevate. Questo requisito condiziona evidentemente un aspetto connesso con il processo vaccinale: un vaccino infatti deve avere tra le sue caratteristiche quello di mantenere le sue proprietà anche durante impegnativi tragitti per raggiungere luoghi sperduti del pianeta, dove poi sarà somministrato. In questo senso occorre che la tecnologia metta a disposizione vaccini “resilienti”, capaci cioè di conservare le loro proprietà contro tutto e contro tutti.

Nel caso dei vaccini anti-Coronavirus si è parlato, almeno all’inizio, di temperature di mantenimento dell’ordine di diverse decine di gradi sotto zero. Anche in questo caso la tecnologia ci ha messo a disposizione apparecchiature capaci di assicurare le condizioni necessarie a preservarne le proprietà. Si è così costituita una rete logistica per raggiungere il numero più grande possibile di soggetti suscettibili.

Quest’aspetto evoca fatti storici che sono un combinato di scienza e umanità, di intuizioni e solidarietà. Tante e significative le vicende che hanno costellato soprattutto l’epopea vaccinale, all’incirca tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento.

Un fatto più di altri è anticipatore per la nostra attualità. Siamo nel primo periodo della storia della vaccinazione per eccellenza, quella antivaiolosa. Ben presto si pone il problema di come estendere questa pratica anche in angoli della terra non facilmente né rapidamente raggiungibili. Questa “sfida” suscita l’inventiva degli scienziati, ma anche il coraggio di gente semplice. Degli uni e degli altri per lo più non S resta memoria. Una storia però è paradigmatica. Quella che ha per protagonista il medico spagnolo Francisco Xavier de Balmis. La sua impresa è sapientemente illustrata da Baroukh M. Assael («Il favoloso innesto. Storia sociale della vaccinazione», Laterza 1995). Balmis si dedicò completamente a promuovere la vaccinazione contro il vaiolo, divenendo un vero e proprio ambasciatore della vaccinazione. Per questo circumnavigò in 3 anni il globo, diffondendo la pratica vaccinale, curandone soprattutto l’organizzazione. Siamo all’inizio del XIX secolo. La Spagna è una potenza coloniale di prim’ordine: la sua sfera di influenza va «dal Nuovo Messico e la Florida a nord, al Cile e al Rio della Plata a sud». Uno sterminato territorio. È proprio in questo periodo che la medicina spagnola conosce uno sviluppo senza precedenti, per volontà del re Carlo IV di Borbone. In questo contesto fioriscono istituzioni prestigiose come il Collegio Reale di Medicina e Chirurgia, il Collegio di Medicina Veterinaria e la costituzione di una scuola di medici cosiddetti “praticantes” di Madrid. Tutto questo concorre alla diffusione della vaccinazione.

Proprio nelle colonie latino-americane si dovevano spesso fronteggiare grandi epidemie di vaiolo. In particolare, nel 1802 da Bogotà giunse una richiesta di soccorso per una terribile epidemia di vaiolo. Sensibile a questa invocazione, il Consiglio delle Indie su sollecitazione del re, organizzò quella che poi sarà denominata la Real Expedición Marítima de la Vacuna, a capo della quale fu posto lo stesso Balmis. Siccome per adempiere alla missione si trattava di trasportare la linfa per la vaccinazione in un tempo che non era possibile stimare, ci si affidò alla tecnica del passaggio di braccio in braccio della linfa. Per far questo fecero parte della spedizione 22 bambini, ospiti di due orfanotrofi (la Casa de Desamparados a Madrid e la Casa de los Niños Espósitos di Santiago de Compostela). La tecnica consisteva nel vaccinare i bambini in coppia, a distanza di una decina di giorni tra una coppia e l’altra. Era così possibile avere costantemente a disposizione la linfa (cioè il liquido prodotto dalle pustole del vaiolo, necessaria per la vaccinazione antivaiolosa). Non solo, ma per evitare sorprese, i due vaccinati venivano guardati a vista, giorno e notte, in modo da evitare che le pustole si deteriorassero o venissero grattate prima di essere state trasferite agli altri.

L’imbarcazione che garantì la missione, la Maria Pita, salpò da La Coruña il 30 novembre 1803. Raggiunse dapprima Tenerife nelle Canarie. Qui Balmis istituì il primo ambulatorio di vaccinazione. Quindi il 9 febbraio del 1804 la spedizione raggiunse Porto Rico, dove Balmis credendo di essere il primo vaccinatore dell’area centro-americana, ebbe una delusione: la linfa era stata introdotta nel Paese già un anno prima da un medico inglese utilizzando il braccio di una piccola schiava nera di 2 anni.

Anche se a Balmis non va il merito di essere stato il primo a trasportare la linfa dall’Europa in America, gli deve essere riconosciuto il merito di aver introdotto il modello vaccinale disseminando l’emisfero sud di ambulatori per la vaccinazione.

Una rete di tutela della sanità pubblica che contribuì alla globalizzazione della vaccinazione. Oggi, a distanza di due secoli, abbiamo bisogno della sua stessa intraprendenza ed entusiasmo per porre fine alla minaccia pandemica.