Non tutto è come sembra»: questa è la frase che meglio descrive l’esperienza che ho fatto quest’estate a Scampia. Grazie al progetto «Le 4 del pomeriggio» organizzato dalla Caritas di San Miniato, ho potuto trascorrere una settimana all’Officina delle Culture a Scampia e non posso fare a meno di sostenere che sia stata un’esperienza formativa che a livello umano e sociale mi ha particolarmente toccata. Fin da subito l’ambiente che abbiamo trovato è stato quello di una grande famiglia, formata da Ciro Corona, presidente dell’associazione (R)esistenza, che ci ha ospitato, dai suoi collaboratori e soprattutto da tutte quelle persone che usufruiscono della struttura per scontare una pena alternativa al carcere svolgendo varie attività. Siamo stati accolti tutti con una potente frase: «benvenuti a casa vostra».
Per me hanno significato molto queste parole perché mi hanno fatto capire che, anche se per una sola settimana, io sono davvero diventata parte della quotidianità dell’intero quartiere. Scampia, situato nella periferia di Napoli, conta molti più abitanti di quanti siano quelli di un nostro piccolo paese e ci viene presentato nella vita di tutti giorni come il degrado massimo della società, dove crimine e malavita attecchiscono come in nessun altro luogo riescono a fare, ma questa visione è del tutto esagerata e finalizzata a dare esclusivamente un’immagine negativa della zona. Durante quei giorni ho potuto conoscere l’altra faccia della medaglia, ovvero quella di un quartiere dove agiscono più di 100 associazioni culturali che lottano per ridare valore agli spazi comuni, alle attività di vita di tutti i giorni, cercando di promuovere ogni aspetto positivo della zona. Abbiamo conosciuto la realtà del Parco Corto Maltese, dove sono i condomini che abitano negli alti palazzi attorno al parco a prendersene cura: ognuno fa quel che può per il bene dell’intera comunità: c’è chi si prende cura delle aiuole, chi della «N manutenzione delle strutture e chi organizza i turni nei campi da Basket e da Tennis, ma nessuno chiede di essere rimborsato per il servizio svolto perché sanno di farlo per lanciare un messaggio di vita e di rivalsa che gridi a tutti che loro ci sono, vivono e resistono in quel territorio senza più averne paura.
Le storie da raccontare sono molte, ma credo sia importante soffermarsi in particolare su quella che più di tutte ha scosso l’intero gruppo di cui facevo parte, ovvero l’esperienza di Luciano. Luciano ci ha raccontato di come la Camorra si sia impossessata del bar di cui era proprietario e di come la sua vita sia cambiata drasticamente da quel momento: costretto a scappare dai propri affetti senza sapere dove andare e dove trovare rifugio da quelli che lo volevano morto, senza più un luogo fisso o una casa con una famiglia che lo aspettasse. Aiutato a tornare a Scampia dopo anni riuscì a riprendere in mano la sua attività, ma le acque non si erano affatto calmate: un giorno gli fu messo un sacco nero in testa, fu picchiato a sangue e quasi ucciso e solo dopo ore gli fu permesso di andarsene. Non sapendo più che fare si presentò al commissariato di Polizia e non solo denunciò il pizzo imposto sul suo bar, ma fece anche nomi e cognomi di quelli che erano i capi del clan camorrista che lo aveva soggiogato. È stato messo immediatamente sotto sorveglianza 24/24 h per monitorare il susseguirsi degli eventi, e al momento giusto, grazie ad un blitz effettuato dalla DIA, ha fatto arrestare alcuni dei grandi boss della zona. Tutt’ora Luciano rischia la propria vita in nome della giustizia. Vive una situazione difficile e molto pesante, ma che è comunque un esempio di rivalsa verso il sistema silenzioso di omertà di cui vivono le organizzazioni della malavita e da cui Luciano, con un grandissimo atto di coraggio e fiducia verso le autorità, si è riuscito a liberare.
Ho menzionato un “atto di fiducia nei confronti delle autorità” perché un altro aspetto che ho capito durante l’esperienza è che non sempre lo Stato si è preso a carico il bene delle persone che abitano questo quartiere. Il complesso progetto delle Vele, che doveva rendere il quartiere futuristico e funzionale per la vita sociale proponendo al loro interno aree comuni, nelle quali praticare attività che divenissero punti di ritrovo per l’intera cittadinanza, ne sono un chiaro esempio. Infatti il progetto non fu mai del tutto completato e oggi si percepisce nell’aria il senso di abbandono in cui gli abitanti delle Vele rimaste vivono: gli ultimi degli ultimi, coloro che occupano il gradino più basso della nostra società. Eppure anche in mezzo al grigio del cemento e dell’amianto di questi palazzoni la vita e la speranza, ma non solo, anche la rabbia e la tristezza, trovano il loro spazio, e allora le pareti si cospargono di murales, scritte e disegni che urlano e chiamano alla lotta per l’esistenza e la resistenza in un quartiere che dalle sue ceneri è riuscito a rinascere e dove si è tutti parte, anche se solo per una settimana, di una grande e affettuosa comunità. Prima di partire c’era che mi diceva frasi come “ma cosa ci vai a fare a Scampia?” o “non hai paura?” e io rispondevo che volevo partire per capire e aiutare, ma ora che sono tornata racconto che sono stata a Scampia, ho ascoltato, ho capito e nel mio piccolo ho aiutato, ma soprattutto ho appreso la consapevolezza che prima di poter giudicare bisogna conoscere a fondo la storia di ciascuno e che conoscere storie ed esperienze di vita così differenti dalle mie mi permetterà di essere un adulto che avrà a disposizione gli strumenti adatti per sapersi mettere in discussione con gli altri.
Decisamente un bel dono quello che ho ricevuto da un quartiere che «sembrava non aver nulla da offrire».