Siamo lieti carissimi presbiteri, diaconi, fratelli, sorelle di poterci raccogliere nella Cattedrale, in preghiera, nel celebrare la Messa del Crisma per entrare, così, insieme, da questo grande e solenne portale, nel cammino del Triduo santo, nell’evento Pasquale che è per tutti noi e per il mondo evento di salvezza.
Di questi tempi, l’anno scorso, non ci era data possibilità di celebrare l’Eucaristia e le solenne feste pasquali con la presenza del popolo di Dio. E’ dunque quasi la riscoperta di un dono quella di poter celebrare e pregare con la comunità, con la presenza di volti, storie, sguardi, intrecci che rendono a tutti noi il volto vero della Chiesa.
Non sono ancora finite le restrizioni a causa della pandemia che ci affligge, tante attenzioni dobbiamo conservare, anche in chiesa e tutto questo ci ricorda che poterci incontrare è davvero un dono e per questo ci auguriamo una nuova riscoperta della vita della comunità cristiana e del suo essere presenza viva nei nostri paesi e nel mondo. Pochi magari, certamente di meno rispetto ad anni più gloriosi, ma presenti, cioè vivi, capaci di annuncio e di testimonianza, segnando in questo modo quella che è chiamata la “differenza cristiana”, più semplicemente la forza del vangelo.
In questa celebrazione viviamo come presbiterio e come comunità alcuni riti che dicono l’essenzialità del nostro essere chiesa e preti: l’ascolto della Parola, un ascolto che ci apre all’accoglienza della Parola, il Verbo che si è fatto carne e che sola, come parola di vita, deve riempire il nostro cuore e guidare i nostri passi; poi il rinnovo delle promesse sacerdotali, con la riscoperta stupita della chiamata del Signore, con lo stupore di chi riconosce di sé la propria pochezza, i propri limiti, la propria miseria (e tra preti ci è spesso molto evidente) e non solo ricorda ma sente di nuovo la voce dell’Amato che chiama proprio te; seguirà la benedizione degli oli santi, per i catecumeni, per gli infermi, e il crisma per le scelte e il dono della vita e ci ricorda questo che siamo dei “mandati”, siamo annunciatori, testimoni; infine l’Eucaristia, il pane di vita eterna, il senso più alto e profondo del nostro sacerdozio. Vi chiedo cari fratelli di vivere queste tappe del rito non solo come fredda ritualità, ma come preghiera che ci riguarda, parla proprio a noi, a te, ci dà vita nuova, ci incoraggia, ci motiva, ci mette di nuovo in cammino. E scopriamo anzitutto la fedeltà di Dio.
Questi mesi di pandemia ci hanno molto segnato e ferito. Tante limitazioni, un po’ più di solitudine nei primi mesi, la paura del contagio, la sofferenza della malattia e, insieme a questo però, anche tante opportunità di riscoperta della verità della vita per noi: il tempo per la preghiera, il tempo per noi stessi, il tempo per l’incontro, il tempo per la carità e la solidarietà, il tempo per l’ascolto… Abbiamo riscoperta il senso prezioso del tempo.
Come presbiterio siamo stati abbondantemente segnati: almeno dieci preti sono stati contagiati, uno di noi anche con conseguenze molto serie e il ricovero (don Marco); almeno un diacono permanente; varie comunità religiose con tante suore. E poi quante famiglie, anziani nelle Case di Riposo. E poi altri, bloccati per la quarantena. E ancora: attività commerciali chiuse, difficoltà che da dopo la seconda guerra mondiale mai erano state viste nel mondo del lavoro e delle imprese del nostro territorio, l’affacciarsi di nuove povertà. Negli ultimi mesi ci siamo anche maggiormente allontanati come persone, più faticosa è stata la solidarietà e il rispetto reciproco, distanti e più lente anche le istituzioni. Siamo passati dall’ “andrà tutto bene” e dai canti sui balconi delle abitazioni nei primi mesi del lockdown, al “niente sarà più come prima”, in cui sono confluiti sconcerto, chiusura nei propri bisogni, caccia di presunti privilegi di alcuni, stanchezza. Potremmo dire che si è sfilacciata la comunità, anche quella cristiana e ci troviamo ora a dover ricostruire.
E’ su questo che vorrei brevemente riflettere con voi, alla luce di quello che viviamo e della Parola di Dio: la necessità di ricostruire e il posto dei preti in questo ricostruire. E scopriamo che la strada per ricostruire è vivere la fraternità, a partire dalla nostra fraternità presbiterale.
Così scriveva Paola Bignardi in un suo articolo su Avvenire del 17 febbraio scorso parlando del cammino quaresimale: “C’è una solidarietà da vivere portando l’aiuto possibile a chi è colpito negli affetti, nel lavoro, nei propri progetti, anche come esito della pandemia. Uscire insieme da questa situazione significa fare comunità. Sembrano cose da niente, ma il senso di comunità – anzi, di fraternità – si costruisce attraverso piccoli gesti quotidiani, da artigiani, direbbe papa Francesco. L’artigiano lavora attraverso piccoli gesti, ciascuno dei quali è importante: sbagliarne uno potrebbe compromettere l’insieme; non fa le cose in serie, ma una a una, con la stessa cura per ciascuna; e accompagna la competenza con la creatività. In questa quaresima [così scriveva, ma potremmo dire noi in questa Pasqua] ciascuno di noi è chiamato a essere artigiano della comunità”.
E’ questo il senso del ricostruire la comunità: si tratta di tessere nuovi legami, di cercare gli altri nelle situazioni in cui sono, senza aspettare che vengano loro; si tratta di affinare buone e minime doti umane di relazione (quanto ne avremmo bisogno anche tra preti!); si tratta di contribuire a costruire una comunità che potremmo chiamare “affettiva” e quindi veramente fraterna, capace di accoglienza di tutti e anche di ogni “diverso” e “diversa” rispetto ai nostri schemi, anche ecclesiali; si tratta di tentare di stare in rete (magari facendoci aiutare), anche in Internet, nei vari social che diventano oggi luoghi importanti e reali di incontro e di costruzione di legami, opinione pubblica, e di annuncio. E’ questa la costruzione di una vera fraternità e per questo come preti dobbiamo essere nella comunità, per ricostruire, artigiani della comunità.
La Parola di Dio che abbiamo ascoltato ci indica alcune strade per essere noi, preti, artigiani di comunità.
La pagina dell’Apocalisse fotografa chi siamo noi nella luce della fede:
“A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli”.
Il testo fa riferimento anzitutto al sacerdozio comune, al popolo scelto ed eletto di Dio, da lui amato, ma in queste parole possiamo riconoscere anche la chiamata a noi di essere sacerdoti di Dio, amici di Dio e da lui chiamati ad edificare il Regno. E Dio ci chiama come comunità, nel legame essenziale con tutti i battezzati e nel legame ontologico, sacramentale tra di noi nel sacramento dell’Ordine. Ci chiama sacerdoti e fratelli, ci costituisce in fraternità.
Possiamo guardarci negli occhi, ce lo permette anche la mascherina, e dovremmo chiederci con sincerità: siamo fratelli? Magari vi siete messi vicini come amici, è più facile… Ma cercate gli occhi di chi è più lontano. Siamo fratelli? Guardiamoci anche tra di noi, tutti noi, anche con me vescovo: siamo fratelli?
E’ il primo passo, la condizione essenziale per ricostruire la comunità e per far crescere la fraternità tra tutti, incontrando gli uomini e le donne del nostro tempo.
Ma la scoperta sensazionale è che, al di là delle nostre risposte sincere a quella domanda, la Parola di Dio ci dice che questo legame ce lo regala il Signore; non smette mai; sempre ricomincia a farci fratelli. “Ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio”.
Il Signore Gesù è il primo e principale costruttore di comunità e non solo ci chiede, ma ci regala di essere fratelli tra di noi, di vivere una autentica fraternità e in questo modo, vivendola per primi noi tra preti la fraternità, potremo costruirla nelle nostre comunità.
La pagina di vangelo riprende la profezia di Isaia (della prima lettura) e annuncia che Gesù è il Messia, l’atteso che compie le opere di ricostruzione dei legami, della comunità. Gesù è il vero artigiano della comunità. Egli porta un lieto annunzio, la liberazione ai prigionieri, la vista ai ciechi, la libertà agli oppressi… e potremmo continuare con tante altre opere di Gesù di accoglienza dell’altro, sanando, benedicendo, guarendo, correggendo e sempre accogliendo chiunque come fratello e sorella; sempre… artefice di fraternità.
Non dobbiamo illuderci di costruirla noi la comunità o di saper tessere nuovi e autentici legami con gli altri. E’ il Signore, è Gesù che è all’opera nella comunità e ricostruire la comunità vuol dire andare dietro a lui, scoprire dove egli sta operando, dove ci conduce o ci chiama, cosa fa lui e nell’annuncio, sempre, indicare Lui, Gesù, l’unico Signore.
Il vangelo annunciato e vissuto, la nuova civiltà dell’amore (direbbe San Paolo VI) possono oggi entrare in campo per ricostruire la comunità, per farci crescere nella fraternità come via di questa ricostruzione.
Anche qui una domanda: guardiamo noi per primi a Gesù e a quello che fa Lui… E ci chiediamo: siamo noi capaci di vederlo fratello? Si…, Lui, proprio Lui… tuo fratello. E potremo scoprire quali gesti di delicatezza egli ha per ciascuno di noi, nel prendersi cura di noi e del nostro vivere.
Guardiamo a Gesù, annunciamo Lui, orientiamo lo sguardo dei nostri fratelli e sorelle al Signore… per costruire fraternità e una nuova comunità.
Ancora un fugace sguardo alla profezia di Isaia, raccogliendola appunto come profezia, come qualcosa di annunciato oggi riguardo al futuro… e potrà diventare invito, augurio, speranza per noi. Si tratta di sentirci chiamati a porre questi gesti di fraternità e per ricostruire la comunità. Fai anche tu la tua parte, potremmo dire. Ecco il senso del testo di Isaia.
Cosa vuoi fare tu, prete, tornando nella tua parrocchia, per costruire la comunità, per far crescere la fraternità con tutti? Quale gesto concreto? Quale passo potresti muovere? Quale cambiamento nel tuo modo di fare con gli altri? Quale preghiera per chi è nel bisogno? Quale carità, morendo un po’ a se stessi?
Ci sono alcuni sentieri che vorrei indicarvi, che desidero condividere e che ritengo andranno percorsi insieme per crescere nella fraternità e costruire, ricostruire la comunità.
Anzitutto siamo chiamati a metterci nel cammino di Chiesa e di una comunità che papa Francesco ci descrive nella sua enciclica “Fratelli tutti”. E’ un primo sentiero: così devono essere le nostre chiese, immagine vera dell’essere fratelli tutti, e nel mondo la chiesa deve essere presenza buona, accogliente, di fraternità.
Un secondo sentiero dovrà essere quello dei giovani. Se non riprendiamo a camminare con i giovani, a saperli accogliere ed ascoltare, a non anteporre loro i nostri schemi e certezze morali o teologiche per capire un po’ anche da loro… poco futuro potremo avere. Con i giovani… ricostruiamo e più praticabili con loro sono veri percorsi di fraternità.
Un terzo sentiero è dato dall’esercizio della sinodalità e dal crescere sempre di più come chiesa diocesana che si impegna, si sperimenta, si corregge, ritenta a costruire percorsi sinodali, capaci di maturare dall’ascolto e dall’incontro e con la responsabilità di assumere il carisma del discernimento e poi delle scelte. Con spirito sinodale dovremo rimetter mano alle conclusioni dei laboratori riassunte nella mia lettera “Pronti a salpare”. E su questa strada di sinodalità cammineremo come chiesa in Italia.
Un ultimo sentiero che vorrei ricordare è quello che ci porterà a celebrare il giubileo diocesano a partire dal 5 dicembre dell’anno prossimo. Un percorso per crescere appunto come comunità e nella fraternità, cioè nell’essere Chiesa.
Torniamo, fratelli, oggi nelle nostre comunità. C’è da ricostruire. Tocca anche a noi. Ricostruiamo a partire dalla Pasqua. Ricostruiamo accogliendo l’annuncio pasquale che è annuncio di nuovi legami, di nuova comunità.