Carlo Andreini, un cristiano a visiera alzata, un uomo dal pensiero netto e lucido, una di quelle persone di cui ci sarebbe assai bisogno in tempi nevrotici e instabili come quelli in cui stiamo navigando. Carlo se ne andava, in modo discreto e senza clamore, esattamente dieci anni fa (3 giugno 2009).
Don Romano Maltiniti, che forse più di tutti gli è stato vicino e meglio lo ha conosciuto, testimoniava che ciò che più gli urgeva e gli stava a cuore, era la costante preoccupazione che la Chiesa non si conformasse alla mentalità del tempo.
Avvertiva impellente il bisogno di etica nella politica e nella finanza (quanto attuale!), la sete di pace in tempi inquinati da guerre indiscriminate e generalizzate, l’ansia per l’unità dei cristiani.
Soffriva per la solitudine dei giovani che percepiva orfani degli adulti e sorprendeva la sua capacità di leggere la realtà attraverso la filigrana sapienziale della Parola di Dio, per la quale nutriva un amore raro e acuto. Parola che, possiamo dirlo senza tema di smentita, è stata la vera fonte propulsiva della sua azione.
Ma gli faremmo un torto grande se non dicessimo che Carlo era anche e innanzitutto un uomo buono, che non ha mai risparmiato mezzi, beni e risorse (anche personali!) per mettersi al servizio degli altri, soprattutto dei più deboli e dei più fragili. E alla fine, al di là del suo pensiero e dei suoi incarichi pubblici (ha avuto responsabilità importanti anche all’interno della nostra Caritas diocesana), era esattamente questo che convinceva in lui e ti conquistava.
Si, Carlo era un uomo buono. Non può che spiegarsi in questi termini il motivo per cui ancora oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, manca tremendamente in chi lo ha conosciuto.
Certo a parlar di bontà, in tempi in cui questa virtù è moneta fuori corso, si rischiano i colpi di tosse imbarazzati di cinici e benpensanti – e quanti ne ha dovuti sentire Carlo! Eppure, anche secondo accreditati modelli matematici, bontà e solidarietà sarebbero le decisive soluzioni paradigmatiche ai problemi del mondo. La solidarietà e la convivialità tra gli individui – e non il vantaggio egoistico del singolo – produce il maggior vantaggio per le società. Basterebbe orecchiare anche distrattamente quanto asseriva in proposito il premio nobel per l’economia John Nash o più semplicemente – come sognava lo stesso Carlo – applicare alle logiche del capitalismo terminale le parabole cooperativistiche del vangelo (i lavoratori della vigna, il creditore e i due debitori, l’amministratore disonesto, ecc.), per accorgersi che comportamenti di questo tipo in macroscala, farebbero approdare a società più stabili e meno conflittuali. Anche in virtù di questo tipo di ragionamenti,
Carlo è stato capace di portare la sua sete di giustizia e di bene in territori tradizionalmente sghembi a questi propositi, come le banche e la politica. Per chi non lo ha conosciuto, possiamo testimoniare che proprio il suo rigore morale e la sua etica specchiata sono state le pietre angolari su cui erano impostati il suo carattere, il suo temperamento e la sua attitudine alla relazione.
Un galantuomo si sarebbe detto in altri tempi: Indro Montanelli parlava spesso e con ammirazione degli uomini con il “senso dello Stato”, ossia di quegli umili e oscuri “servitori” che fanno andare avanti le società umane. Nel piccolo e nel locale – potremmo dire nel suo “stato” – Carlo aveva esattamente queste caratteristiche. Peculiarità che biblicamente appartenevano anche ai patriarchi d’Israele.
Di lui stupiva la profondità di analisi. Da audace e caparbio autodidatta, non si azzardava mai in territori del sapere a lui sconosciuti (qui stava la sua umiltà, connotato della sua forza), ma potevi star certo che, presosi il tempo e colmato il vuoto, al confronto successivo era in grado di proporti un suo pensiero fuori schema, anche su dottrine a lui non congeniali. Un giorno ebbe a dirmi: «È facile assumere e riportare il pensiero altrui. Molto più difficile è costruire un proprio originale ragionamento proprio a partire da quello».
Ma non vorrei risultare stucchevole in questo che potrebbe sembrare un bozzetto agiografico. Carlo se ne sarebbe arrabbiato e con ragione. Rimando allora ad un bel libro uscito postumo nel 2012, dal titolo «Senza fare rumore», che ne raccoglie gli scritti principali, restituendoci uno spaccato del suo articolato pensiero. Un testo dalla prosa elegante e precisa, che si scioglie a tratti in lirica struggente.
Oggi Carlo – ne siamo certi – fa corona ai giusti, nel posto che Dio gli ha preparato da sempre. E ascolta, ai piedi del suo Signore, quella beatitudine che, due millenni orsono, il Maestro pronuncio pensando anche a lui: «Beati voi che avete fame e sete di giustizia, perché sarete saziati».
Quella giustizia (quanto l’ha desiderata!) che affama i giusti, è adesso, e finalmente, il suo cibo per l’eternità.