Alla Due giorni del clero, l’arcivescovo di Gorizia ha introdotto il tema delle unità pastorali, prospettando il cambiamento di mentalità necessario per attuare una vera pastorale d’insieme
Quella delle unità pastorali è una delle grandi sfide che la nostra Chiesa diocesana si trova ad affrontare oggi. A seguito delle decisioni di monsignor Fausto Tardelli, la diocesi da tempo è già stata suddivisa in 21 unità pastorali, la maggior parte delle quali, però, è rimasta sulla carta. Il progetto di offrire a parrocchie diverse un cura pastorale unitaria, affidata a uno o più presbiteri, viene spesso interpretata come un semplice tentativo di ovviare alla mancanza di preti e in molti casi viene sentita come un peso o una privazione da parte dei fedeli. Lo scopo delle unità pastorali, tuttavia, non è quello di ridurre ma di potenziare la pastorale, valorizzando la missionarietà delle parrocchie, dando spazio ai ministeri, cercando di rendere la presenza cristiana più incisiva nella società che cambia. Non ultimo, le unità pastorali sono anche un modo concreto per vivere la sinodalità.
Sul tema delle unità pastorali si è confrontato il nostro presbiterio diocesano nella Due giorni del clero svoltasi il 9 e 10 giungo scorsi nell’ex convento di San Francesco a San Miniato. Ad introdurre i lavori è stato invitato l’arcivescovo di Gorizia, mosnignor Carlo Roberto Maria Redaelli, già vescovo ausiliare di Milano e attuale presidente della Q Caritas Italiana. «Se i preti fossero tanti come una volta, si farebbero o no le unità pastorali? – è stata la sua provocazione iniziale – Io sono convinto di no. O forse si farebbero insieme solo quelle pastorali di settore che oltrepassano l’orizzonte parrocchiale: pensiamo alla pastorale del lavoro, caritativa, scolastica… Le parrocchie però resterebbero delle repubbliche autonome e la diocesi una specie di confederazione».
Monsignor Redaelli ha individuato le radici di questa difficoltà in alcuni presupposti, considerati ovvi, che invece occorre mettere in questione. La prima di queste ovvietà è la parrocchia. «In tutte le diocesi ci sono le parrocchie e vengono considerate il punto di partenza – ha notato il relatore – ma dal punto di vista teologico ed ecclesiologico la realtà fondamentale è la diocesi. La Chiesa particolare è di diritto divino, mentre le parrocchie non lo sono. Le parrocchie, quindi, potrebbero anche non esserci». La seconda ovvietà è che la pastorale sia originariamente parcellizzata e che ci dobbiamo impegnare per fare la «pastorale d’insieme. «In realtà – ha proseguito monsignor Redaelli -, dovrebbe essere il contrario: c’è una pastorale diocesana che tutti condividiamo e che poi abbiamo l’impegno di incarnare nella realtà concreta». La terza ovvietà è che si debba partire dal clero, e dal problema della sua scarsità, mentre dovremmo partire dal popolo di Dio. Le unità pastorali, le comunità, sono popolo di Dio, e occorre dare spazio alla ministerialità laicale, non solo come supplenza alle funzioni del clero. Per superare queste ovvietà è necessario cambiare prospettiva e questo non è facile perché la parrocchialità è una tradizione secolare, che ha avuto e ha dei grandi pregi che non dobbiamo disperdere. Per questo bisogna partire dalla realtà concreta delle nostre comunità facendo passi graduali con saggezza pastorale.
«Già a livello di diocesi – ha suggerito l’arcivescovo di Gorizia – quanto più la diocesi è rilevante, tanto più diventa importante il cammino d’insieme. Le scelte pastorali diocesane devono essere più condivise, in stile sinodale, domandandoci che cosa il Signore chiede alla nostra Chiesa». Importanti sono i momenti diocesani per far conoscere le persone tra loro («la comunità è fatta di volti»), per far crescere il senso di appartenenza e rafforzare una coscienza comune. Sono ottime, a questo scopo, le esperienze che aprono la diocesi alla missione e alla carità. Un ulteriore spazio d’impegno è la formazione del clero, per aiutare i sacerdoti, quale che sia la loro mansione (parroci, cappellani, insegnanti…) a sentirsi anzitutto rappresentanti di un presbiterio. È il presbiterio nel suo insieme che condivide con il vescovo la responsabilità per la diocesi: il servizio dei singoli sacerdoti deriva da qui. «Invece abbiamo un po’ l’idea – ha notato monsignor Redaelli – che ognuno debba fare le sue cose per conto suo e poi magari ci mettiamo insieme…». E così si fa fatica a inserirsi in una parte del popolo di Dio che viva una reale corresponsabilità. In quest’ottica, il ritrovarsi insieme del nostro clero per riflettere su queste tematiche è un segno positivo, «perché bisogna crescere nella conoscenza e nella stima reciproca – ha concluso monsignor Redaelli -, dando prospettive nuove, con una vera ripresa spirituale».