In questo intero anno, per tutti, la vita è condizionata da due parole: “positivo”, “negativo”. Due termini senza alternativa di scelta, tertium non datur, alla presenza o assenza del Coronavirus (Sars-Cov-2). Siamo frastornati, impauriti da questo mostro volante che ancora la nostra ricerca biologica non ha sconfitto. Come tutti i virus non può vivere da solo, non possiede proprie risorse e ha bisogno di attaccarsi ad altri corpi per sopravvivere. Si aggancia alle nostre cellule, le aggredisce e in questo caso può causare sindromi respiratorie acute gravi. La relativa malattia porta il nome di Covid-19.
Questo in estrema sintesi. Ciò che ormai ha invaso il nostro lavoro, le nostre occupazioni, la nostra vita quotidiana è però la paura, e ai piccoli cenni d’allarme, seppur lievi, si pensa subito di essere in preda a questo succube, silenzioso virus (dal latino, “veleno”). «Sarò positivo?», la prima domanda che ci poniamo. E subentra il terrore per il nostro paventato bloccaggio.
Arriva il pre-tampone e poi il tampone: «Positivo asintomatico». Si entra nel tunnel della paura. L’informazione generale e, purtroppo, anche quella istituzionale, non danno semplici, uniformi indicazioni.
Rimaniamo soli nelle decisioni. Ci sentiamo ancora bene, in forza fisica sufficiente per affrontare il nemico, ma già vuoti dentro. La paura ha preso il sopravvento. Ciò che martella nella nostra mente: «Sono positivo! Sono positivo!». Inizia il processo d’intervento medico: chi, senza conseguenze, inizia la terapia d’isolamento in casa, chi invece accusa sintomi preoccupanti, viene ricoverato. Si aprono due scenari: l’ospedale e la casa. Per l’amico ricoverato, al netto della preghiera, poco possiamo fare, solo qualche contatto telefonico. Tutto è affidato alla struttura sanitaria, dove tutti cercano, con maturità e professionalità, di esercitare: «Ho potuto toccare con mano l’umanità, la competenza, la cura poste ogni giorno in essere, con instancabile sollecitudine, da tutto il personale, sanitario e non. Medici, infermieri, oss, amministrativi: ciascuno di loro s’impegna nel proprio ambito per assicurare la migliore accoglienza, cura, accompagnamento per ogni paziente». Questo il ringraziamento del cardinal Gualtiero Bassetti alla sua uscita dall’ospedale. Per l’amico in isolamento casalingo, improvvisamente, scopriamo in noi, sul campo, cosa vuol dire l’amicizia, che non è una parola vaga, ma un alto valore, che non si enuncia ma si testimonia.
«Cosa ti manca? Hai bisogno di qualcosa? Stai tranquillo e chiama. Saremo lì da te il più presto possibile. Chiedi a noi e tranquillizza la tua famiglia». Sono queste le frasi che compongono le prime conversazioni: emozionanti domande ed invadenti risposte. La busta con il necessario richiesto in pochi attimi è al portone di casa o al cancello e tu colpito dal virus, ammiri la scena e ringrazi. È un ringraziamento che lascia una cicatrice: «Il mio amico è accorso, perché avevo bisogno!». Due valori: aiuto ed affetto, uniti da una sensibilità umana sublime che sembrava scomparsa, ma che ancora è viva nei nostri cuori. La paura è ancora legata a quel “positivo”, ma la vicinanza di amici non ti fa sentire più solo ed allarmato.
I giorni passano e finalmente l’esito finale così tanto agognato: “negativo”. Il grido: «Grazie dottori, grazie assistenti, grazie infermieri, grazie volontari e – per chi crede – grazie o mio Dio». «Li ringrazio e li porto tutti nel cuore – afferma ancora il cardinal Bassetti nel suo saluto – perché con la loro opera instancabile si prodigano per salvare quante più vite possibili, impresa tanto più difficile in questo tempo flagellato dalla pandemia. Non mancheranno nelle mie preghiere».
Eccoci ora di fronte ai due termini: “positivo”, “negativo”. Il tunnel della paura si apre alla luce, alla speranza, ma questi due mutamenti della nostra razionalità e spiritualità, lasciano il loro segno. L’uomo si mette a riflettere ed ognuno, nel proprio silenzio, cerca di dare una risposta a ciò che è passato, a ciò che ha sofferto, a ciò che ha visto e condiviso con compagni di ospedale, con i suoi familiari, con i suoi amici. Lo psichiatra Vittorino Andreoli afferma: «La società moderna favorisce comportamenti anomali: siamo al delirio dell’io. Va recuperata la fragilità quella che ci fa dire “ho bisogno dell’altro”». Papa Francesco, in un video messaggio inviato ai partecipanti al seminario virtuale sulla Chiesa in America Latina dice: «La pademia ha rivelato il meglio e il peggio dei nostri popoli e il meglio e il peggio di ogni persona, Ora più che mai è necessario riacquistare consapevolezza della nostra comune appartenenza».