Nell’antico mondo mediterraneo, la modalità di colpire una persona con uno schiaffo conosceva una sua precisa ritualità e simbologia. Lo schiaffo, dato da un uomo libero ad un altro uomo libero, veniva assestato sulla guancia del malcapitato con l’interno del palmo della mano. Ci si fermava qui, perché l’eventuale successivo schiaffo, dato col dorso della stessa mano, ma sulla guancia opposta del percosso – il cosiddetto manrovescio – poteva essere inferto solo ad uno schiavo. Questo singolare galateo della violenza, non consentiva di colpire col dorso della mano un uomo libero.
Una suggestiva interpretazione del passo di Matteo 5,39, «se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra», spiegherebbe le parole di Gesù proprio secondo questo antico codice. Gesù in sostanza, usando quell’espressione, non voleva consigliare ai suoi seguaci una generica e irenica resistenza gandhiana, ma al contrario li invitava, col gesto di mostrare l’altra guancia, alla fierezza dei figli di Dio, che di fronte ad uno sganassone fanno presente all’aggressore che non sono più schiavi («Non c’è più schiavo né libero» Gal 3,28) e che nessuno, neanche l’Imperatore aveva più il diritto di colpirli come tali. Spiegazione rotonda e asciutta nella sua bellezza, ma che tuttavia non figura tra le interpretazioni maggiormente gettonate dagli esegeti.
Perché ne parliamo? Tranquilli, il nostro settimanale non sta virando verso i severi e paludati territori dell’esegesi biblica. Se abbiamo ragionato attorno a questa pericope matteana è perché ha suscitato un discreto trambusto l’episodio accaduto nelle settimane scorse del parroco di Borgotrebbia, in provincia di Piacenza, don Pietro Cesena, che durante un’omelia domenicale ha preso a male parole i rapper contemporanei, colpevoli di instillare nei ragazzini idee pericolose e nichiliste. Qualificandoli più volte con un epiteto offensivo, il sacerdote ha detto che gli «adolescenti recepiscono i contenuti di questa gente, secondo cui ciò che conta nella vita è solo la carriera, le donne, il denaro e le droghe», e indignato ha lanciato una provocazione che ha fatto più scalpore delle parolacce: «Se ne incontro uno lo picchio, poi sicuramente mi picchia anche lui, ma io mi ci butto dentro in ogni caso».
Questo passaggio della singolare predica non è passato inosservato: i giornali hanno rilanciato la notizia, e uno dei più noti rapper italiani, Emis Killa, ha risposto per le rime alla minaccia del sacerdote con un video su Instagram: «Don Pietro, quando vuoi, se vuoi menare un rapper vieni a menare me. Prete c’ho il diavolo in corpo e tu me lo devi levà». L’indignazione del sacerdote nei confronti di questi nuovi corruttori sociali è comprensibile, un po’ meno forse il modo infelice in cui è stata espressa. Dispiace però anche l’arroganza del rapper, sicuro di non correre alcun rischio, perché un uomo di Chiesa non si abbasserebbe mai a menare le mani. Forse. Con un sorriso ci tornano in mente alcuni controesempi di «Cassius Clay in talare» (da fra Giovanni da Firenze detto «il pugilatore», fino al don Camillo di Guareschi), che avrebbero forse indotto Emis Killa ad ostentare meno sicurezza.