Un’impostazione che potremmo definire tradizionale dei sistemi penali, anche negli odierni Stati democratici, ha posto l’attenzione quasi esclusivamente sulla figura del reo, considerando solo in un secondo momento le vittime dell’evento criminoso, ai fini semmai di un loro risarcimento in sede civile, per il danno patito in quell’evento.
In estrema sintesi, la teoria della pena in quei sistemi era impostata secondo un concezione retribuzionistica: la sanzione penale che veniva inflitta al condannato era considerata, in primo luogo, come una sorta di corrispettivo per il male che questo soggetto aveva fatto alla società; e poi, in quanto espressione della potestà statuale, la sanzione veniva utilizzata anche per un fine ulteriore: quello di prevenire la commissione dei reati; fine che si concretizzava in una prevenzione generale, mediante la minaccia della pena per i trasgressori delle norme, in modo da orientare le condotte di tutti i consociati; ed in una prevenzione speciale, rivolta al reo stesso, affinché questi non commettesse in futuro lo stesso reato per il quale era stato condannato.
Da qualche decennio la riflessione della penalistica e dei legislatori ha iniziato a prendere in considerazione, per così dire, un’altra concezione di giustizia, non più esclusivamente limitata a quel criterio ora richiamato del «dare a ciascuno il suo», ma andando a considerare l’intero vissuto dei soggetti coinvolti nel reato, col fine, se possibile, di arrivare all’incontro tra le parti che nell’evento criminoso si sono trovate in contrapposizione, rispettivamente come autori e vittime: quella della giustizia riparativa.
Se ne è parlato mercoledì scorso nella Sala della Biblioteca del Seminario a San Miniato, in una serata con il gesuita Guido Bertagna, dal titolo «Percorsi di giustizia. Ricostruire persone e comunità»; serata organizzata dall’Azione Cattolica diocesana e dall’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro della Diocesi, alla quale ha partecipato anche il nostro vescovo e un folto pubblico.
Si è trattato di un incontro durante il quale il relatore, uno dei massimi esperti di questo argomento, dopo aver illustrato in che cosa consiste la giustizia riparativa ed aver fatto riferimento al suo utilizzo, più o meno fortunato, in alcuni Paesi del mondo nel momento di transizione da regimi autoritari a quelli democratici (fine dell’Apartheid in Sud Africa, conflitto etnico in Rwanda, etc.), ha ripercorso alcuni tratti della sua esperienza come operatore in questo settore, soprattutto con riferimento alle vicende relative ai cosiddetti anni di piombo: qui è stato possibile sovrapporre le storie dei protagonisti – vittime da un lato e carnefici dall’altro –, seppure diversissime tra loro, per il dolore che hanno lasciato in tutti i soggetti coinvolti. Ecco allora che il meccanismo della giustizia riparativa, che prevede tanto ascolto reciproco tra le persone a vario titolo coinvolte, aiutate da un mediatore, è stato l’unico capace, come ha detto Agnese Moro in un’occasione pubblica, della quale sono stati ascoltati alcuni stralci, di «rimettere in moto le cose»; ovvero di far ripartire delle vite umane che si erano bloccate proprio a causa del grande dolore patito.
Perché, lo aveva ricordato nella sua introduzione anche il nostro vescovo, citando il libro dello scrittore francese Paul Bourget, «I nostri atti ci seguono» e quindi ognuno di noi non termina mai di fare i conti con il proprio passato. La testimonianza di Valerio Morucci, rapitore e carceriere di Aldo Moro – anch’essa fatta ascoltare nell’incontro samminiatese – ha senza esitazione confermato che mentre il carcere in qualche misura «protegge il colpevole», perché egli si trova ad espiare una condanna per pagare il proprio debito con lo Stato, la giustizia riparativa lo obbliga «a fare i conti con se stesso», per ricomporre le tante ferite lasciate aperte dagli anni della lotta armata.
Le numerose domande nel pubblico hanno riguardato sia le specifiche modalità di funzionamento della giustizia riparativa, dopo la cosiddetta Riforma Cartabia che l’ha introdotta nell’ordinamento italiano, sia il rapporto che intercorre tra questa e il perdono cristiano. Interessante la risposta del gesuita che ha sottolineato come sia necessario, in queste situazioni di approccio al percorso riparativo, dare un significato proprio alle parole e rifuggire dai luoghi comuni, per far sì che il dialogo possa essere davvero orientato alla ricerca della verità e delle responsabilità, per una integrale presa di coscienza, da parte di tutti i soggetti coinvolti, del dolore che è scaturito dal reato.