I pastori vegliavano nella notte. «L’angelo disse loro: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”».
Noi come loro attendiamo, nella nebbia del presente, invasa dal fumo triste della guerra e dell’ingiustizia che non si dirada. E l’annuncio raggiunge anche noi, paradossale come allora. «Non temete… Una grande gioia». Il paradosso è che la fonte di questa vittoria sulla paura, di questa gioia possibile è «un bambino», uno tra i tanti, uno come tanti, uno nella mangiatoia della povertà. La domanda inevitabile emerge, oggi come allora, colorata di scetticismo: «Un debole, povero bambino è la speranza che ci è offerta?».
Forse, per i pastori, fu la gloria raggiante dell’apparizione degli angeli a spingerli a credere a questo inverosimile annuncio. Per noi, duemila anni dopo il primo Natale, ci sono i frutti di vita nuova, di amore, di comunione tra gli uomini che ne sono nati nella storia, che ci fanno guardare al bambino di Betlemme con attesa semplice, con speranza solida, certi che non si tratta di una favola o di un’illusione, ma dell’unica novità possibile per tutti, ora, qui. San Francesco a dodici secoli di distanza da Betlemme, lo mostrò contemporaneo a Greccio, e ugualmente ora, altri ottocento anni dopo, è il primo Natale.
Nella bellissima «Adorazione dei pastori» di Domenico Ghirlandaio in Santa Trinita a Firenze, si vede Gesù bambino spogliato, adagiato in terra sul mantello di Maria e dietro di lui la capanna sorretta da vecchie colonne e un sarcofago, forse usato come mangiatoia. Gesù nasce tra le rovine di un impero che sembrava forse forte, ma era tuttavia destinato a scomparire. La scritta sul sarcofago asserisce che colui che fu sepolto risorge come un Dio, allusione e annuncio della morte e resurrezione. Un cardellino, simbolo della passione a sua volta rimanda alla croce. Ecco il paradosso di allora e di oggi: mentre tutto sembra cadere in rovina, la debolezza di Gesù, che non venne e non viene al mondo per trionfare, ma per offrire sé stesso, è la vera, grande speranza.
Come i bambini lasciamoci vincere dallo stupore e preghiamo davanti al bambino Gesù, offriamogli i nostri poveri doni, mettiamo davanti a lui la bufera del mondo, la povera gente di Betlemme, di Israele, di Gaza, dell’Ucraina e di tutte le periferie dolorose di oggi, i nostri giovani in cerca di un ideale a cui offrire la vita, le persone che patiscono negli ospedali e in ogni dove.
Soprattutto però accettiamo il Suo dono. Tra i poteri di ogni tipo che calpestano la persona umana, irrompe la debole potenza di quel bambino che è Dio tra noi. Nella notte illuminata dalla Sua Nascita, come i pastori, adorando Gesù bambino, vediamo ricomporsi il mondo attorno a noi, come un unico grande presepe, di cui siamo chiamati a essere protagonisti, con la sua grazia. Chi accoglie la Sua Presenza, chi sperimenta la sua inerme potenza, ne diventa annunciatore, strumento vivo, perché nella precarietà di un mondo senza certezze possa fiorire di nuovo la Vita che salva, che semina la comunione invece dell’odio, la carità invece dell’indifferenza, l’accoglienza invece del timore dell’altro, la gioia invece della disperazione. Germogli di vita nel deserto che avanza. Rinasce il desiderio di mettersi in gioco, mettersi in cammino insieme, per dare carne alla perenne novità del vangelo. E sperimentiamo ciò che afferma papa Francesco nell’Evangelii Gaudium: «Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale. In realtà, ogni autentica azione evangelizzatrice è sempre “nuova”».