«Dante oggi è un vero vaccino, l’antivirus per combattere il nostro problema più grave: la pandemenza». È con questa premessa provocatoria che il poeta Davide Rondoni ha aperto la sua conferenza sul quinto Canto dell’Inferno, la sera dell’8 luglio sul sagrato della chiesa di Cigoli. Invitato dall’associazione “Territorio in Comune” a intervenire nella serie di incontri intitolati “Lo sguardo di Dante, letture a cielo aperto”, Rondoni non ha tradito le aspettative del pubblico. «Oggi sta succedendo qualcosa di inedito e impressionante», ha sottolineato proponendo la sua diagnosi della “pandemenza” attuale: «Nessuna epoca della civiltà umana ha mai elaborato la salute come valore ultimo. Tendiamo a pensare alla salute come al problema più importante della vita, come se la massima preoccupazione fosse quella di durare, come dei carciofi».
Se è vero che siamo piuttosto indifferenti verso l’ultima salute, verso la salvezza eterna (è la “nonchalance de la salut” di cui parlava Montaigne secoli fa), ci interessa invece – e molto – campare. «Ma il problema della vita non è la durata, è il senso. E Dante il problema del senso ce l’ha ben chiaro. Dio gli ha donato Beatrice, come un miracolo, e poi gliel’ha tolta. È da questo trauma, da questa ferita, che inizia il suo viaggio. Nel Medioevo non si parlava che d’amore. I teologi discutevano su come fosse possibile conoscere Dio ed erano arrivati alla conclusione che si può conoscere Dio soltanto amandolo. I trovatori, Guinizelli, i poeti dello Stilnovo, si ispirarono ai teologi e videro nell’amore verso una donna irraggiungibile un modo per nobilitarsi, attraverso lo stesso movimento interiore che avviene quando si ama in modo gratuito qualcosa che non si possiede. Dante aveva alle spalle questa questione: l’uomo dimostra la sua nobiltà amando una donna che non avrà mai. Così, amando Beatrice, una donna che è entrata nel totalmente altro, Dante arriva a conoscere Dio. «Se l’amore muove il sole e l’altre stelle, non può essere un sentimento», ha proseguito Rondoni: «L’amore è una forza con cui non si può scendere a patti, forte come la morte, qualcosa che ci trasporta». Evocativa l’analogia, presente nella poesia araba e riferita dalla storica Régine Pernoud, tra il grido straziante del cammello e l’incapacità di esprimersi dell’amante. Bisogna tener conto di tutto questo quando leggiamo la pagina dell’Inferno che Dante dedica a Paolo e Francesca, per capire la sua pietà, non solo verso di loro ma anche verso gli altri condannati per peccati di incontinenza. Dalle figure della grande storia e del mito, Dante passa a una storiella di provincia, la vicenda di due giovani amanti uccisi da un marito geloso, e li rende importanti come Enea e Didone, perché capisce che dentro la loro storia si agitano grandi questioni.
Non a caso è un libro, di scarso valore letterario, a condurre la storia di Paolo e Francesca verso il tragico epilogo. Un libro letto con avidità dai due ragazzi, che credono di imparare l’amore dalla letteratura d’intrattenimento. Ma occorre affidarsi ad altri testi, Dante lo sa. Non si può parlare d’amore se non poeticamente.