Processione per la pace del 13 ottobre

Le radici antiche di un gesto di Speranza

Intervista alla prof.ssa Isabella Gagliardi di F.Fisoni - Fonte "Toscana Oggi"

La grande processione per la pace del prossimo 13 ottobre a San Miniato, che vedrà il Ss. Crocifisso di Castelvecchio sfilare per le vie della città, intende riprendere la tradizione delle grandi processioni del cosiddetto movimento dei Bianchi del 1399, che interessarono vaste aree dell’Italia centro-settentrionale allo scopo di chiedere pace tra le città e tra le fazioni in lotta. A 625 anni da quei fatti, la Chiesa di San Miniato pone simbolicamente questo gesto di speranza e di preghiera, invitando a farsi di nuovo pellegrini per chiedere la pace in Terra Santa e nel mondo, per il Giubileo del 2025, per la conclusione del Cammino sinodale in Italia e per le vocazioni sacerdotali e religiose. Proprio sulle origini del movimento dei Bianchi e sul loro legame con il nostro Ss. Crocifisso abbiamo chiesto spiegazioni alla medievista Isabella Gagliardi, docente di Storia del cristianesimo e delle Chiese all’Università di Firenze

Prof.ssa Gagliardi, dove e come ebbe origine il grande movimento dei Bianchi del 1399?

«Definire con certezza dove ebbe origine è piuttosto complicato, in quanto le sue origini, come spesso accade per questi fenomeni, sono state trasmesse da alcune leggende, riprese poi da varie cronache scritte soprattutto nel centro-nord della penisola italiana. Queste cronache, prodotte in città diverse – Genova, Piacenza, Ferrara, Forlì, Padova, Orvieto ma anche a Firenze e Lucca- tramandano versioni differenti di un modello letterario unico. Secondo la leggenda, Gesù, in un luogo sconosciuto e in un momento storico non precisato, si mostrò ad alcune persone che abitavano in un territorio rurale, incaricandole di far iniziare questo grande movimento. Si parla, appunto, di uomini che vivevano lontano dalle città. Chiaramente questo è un mito, però ci fornisce un’informazione importante perché ci rivela, costringendola dentro le forme tipiche delle narrazioni leggendarie, una verità: cioè che queste processioni nacquero in un ambiente extracittadino e in un contesto non istituzionale».

Che caratteristiche assunse questo movimento?

«La ricerca storica ha appurato che alla fine del Trecento il movimento dei Bianchi conobbe un anno di particolare fermento, il 1399 appunto, quando gruppi di persone vestite di bianco percorsero tutta l’Italia (arrivando persino a Marsiglia) per chiedere pace e misericordia al Signore a motivo di una situazione politica e sociale, in quegli anni, veramente molto complicata. Per parlare delle sue caratteristiche può essere interessante illustrare il caso bolognese, dove rileviamo una dimensione pubblica di questa forma di penitenza e come questo moto sia stato coerente al sistema ecclesiastico. A Bologna infatti i Bianchi si attengono a un ordine processionale definito dalle gerarchie ecclesiastiche; addirittura una volta entrati in città vengono suddivisi per parrocchie. A Bologna vediamo come è il vescovo stesso a stabilire il percorso cittadino che deve fare la loro processione, e come essi si attengano a queste indicazioni».

Come arrivarono in Toscana?

«Le notizie storiche in nostro possesso ci parlano di una loro presenza significativa a Genova e poi di una diramazione che, attraverso la Lombardia, arrivò in Veneto, un’altra che percorse l’Emilia, e una terza direzione che si orientò verso la Toscana. Dalla Toscana gli approdi successivi furono ancora più a sud: Gubbio, Orvieto e L’Aquila. Molto spesso è il vescovo, nella città di cui è titolare, a guidare la loro processione, passando poi il “testimone” al vescovo della diocesi vicina appena i Bianchi vi si spostano».

Che influsso ebbe questo movimento sulla società di allora?

«L’influsso fu potente; i Bianchi agirono molto sulla percezione della necessità di certi cambiamenti politici, e in questo furono realmente coerenti ai cambiamenti in atto nella società dell’epoca. Gli studi più recenti su questo fenomeno evidenziano molto bene di questa loro coerenza alle grandi trasformazioni di quel tempo storico. Chiaramente ebbero anche un forte impatto a livello devozionale, dato che in molti luoghi, grazie alle loro processioni, nacquero o si consolidarono devozioni locali al crocifisso».

Il pistoiese Luca Dominici nella sua cronaca sull’arrivo dei Bianchi in Toscana, riferisce che il pellegrinaggio ebbe nel sanminiatese, e precisamente al santuario di Cigoli, una delle mete principali, in seguito alle rivelazioni che una bambina, una pastorella della Valdelsa, avrebbe ricevuto dalla Madonna… Ss.Crocifisso di San Miniato, detto di Castelvecchio.

«San Miniato all’epoca era sotto la diocesi lucchese. Lucca e tutto il suo territorio diocesano hanno conosciuto un’importante presenza dei Bianchi e quindi anche la città di San Miniato è stata investita da questo fenomeno. Non ci deve stupire che ci sia un riferimento alla Madonna di Cigoli. Quello di Cigoli è un santuario importante nel Trecento, di portata regionale. Quindi che ci sia un legame del movimento dei Bianchi con Cigoli è qualcosa di abbastanza normale. Tra l’altro a proposito di questi fatti miracolosi della ragazzina valdelsana protagonista dell’apparizione mariana, che aveva iniziato a proclamare pubblicamente che tutti dovevano indossare le vesti dei Bianchi e raggiungere Cigoli, sappiamo anche di un’altra donna di Pisa, più matura, che si racconta avesse anche lei ricevuto un’apparizione della Madonna che chiedeva di recarsi a Cigoli per rendere omaggio con i crocifissi dei Bianchi all’immagine della Vergine».

Come entrano in relazione la devozione alla Madonna di Cigoli e quella al Ss. Crocifisso di San Miniato? E come arrivarono i Bianchi a San Miniato?

«Tramandano le fonti che il Vicario di San Miniato all’inizio voleva impedire ai Bianchi di entrare in città. Si racconta addirittura che avesse cavalcato fino a Cigoli per impedire il loro ingresso anche in quel castello, dove i Bianchi volevano rendere omaggio a “Nostra Donna”, ossia all’immagine della Vergine. Una volta però giunto a Cigoli, il Vicario fu oggetto di una miracolosa conversione e, non solo permise l’ingresso dei penitenti nel castello, ma li condusse addirittura fino a San Miniato dove vennero accolti entusiasticamente dalla popolazione che si unì a loro. Il ruolo del Vicario sanminiatese nell’intera vicenda non fu dimenticato: al ritorno dalle peregrinazioni toscane, quando la statua miracolosa impose ai sanminiatesi di trovarle un luogo di culto che fosse destinato a contenerla in maniera esclusiva, si volle destinarla a un oratorio nel Palazzo dei Priori, forse già esistente e soltanto rimaneggiato per l’occasione. E tutti questi fenomeni, così come gli eventi e i prodigi successivi legati alla pellegrinazione del Crocifisso in diverse città toscane, hanno alla radice proprio la conversione miracolosa del Vicario di San Miniato sotto le mura di Cigoli».

Quindi è con l’arrivo dei Bianchi che prende forma il culto del Crocifisso di Castelvecchio a San Miniato?

«Sicuramente sussisteva una devozione a questo Cristo anche in un’epoca precedente al loro arrivo, risulta però abbastanza chiaro come lo sviluppo “santuariale” del suo culto sia da riferirsi proprio alla processione dei Bianchi, quindi al 1399-1400. Anche perché l’Opera del Santissimo Crocifisso, ossia l’istituzione che si doveva occupare del culto di questa immagine, viene fondata esattamente nel 1400. L’Opera era l’espressione delle più importanti stirpi sanminiatesi; veniva inizialmente controllata in maniera molto chiara dal reggimento civile di San Miniato e nasce a mio avviso poco dopo l’affermarsi del culto all’immagine di Castelvecchio, come ho cercato di dimostrare in un mio lavoro di alcuni anni fa».

I Bianchi dove portarono esattamente in processione il Ss. Crocifisso? Ci furono anche miracoli e conversioni?

«Ripercorrere l’itinerario della processione dei Bianchi a San Miniato è di fatto impossibile, non ci sono evidenze storiche su questo. Secondo la tradizione il Crocifisso era collocato in Castelvecchio, toponimo col quale si indicava il nucleo più antico di San Miniato. Molto probabilmente, prima del 1378 era conservato in una cappella nella pieve di Santa Maria e San Genesio (la futura cattedrale); sappiamo poi che tra 1378 e 1399 si trovava all’interno della chiesetta dei Ss. Giusto e Clemente poco distante. I Bianchi da San Miniato lo portarono a Siena, a Colle Valdelsa, a San Gimignano, a Volterra, a Firenze, a Prato, a Pistoia, a Pescia, a Lucca e a Pisa; qui, secondo quanto riporta il cronista Lorenzo Boninconti, accadde un miracolo: il Crocifisso pianse. Dopo questo evento prodigioso ci furono numerosi altri episodi eccezionali, soprattutto di tipo taumaturgico; il Crocifisso si diceva facesse guarire i malati e soprattutto “gli attratti”, cioè coloro che avevano problemi alle ossa».

Dopo il 1399 che esito ebbe il movimento dei Bianchi?

«Da un certo momento in poi queste processioni di battenti si affievolirono fino a terminare. Ciò che invece non si esaurì furono le devozioni ai crocifissi che, come a San Miniato, erano stati portati in processione in varie città. Questi simulacri in molti casi dettero luogo ad altrettanti santuari».

In un tempo come il nostro, devastato da guerre indiscriminate in cui la pace è un bene sempre più precario, cosa ha da insegnarci un movimento penitenziale di sei secoli fa con la sua devozione al Cristo crocifisso?

«Non credo di essere abbastanza saggia per parlare di queste cose, posso fare una riflessione modesta: ritengo che abbia da insegnarci molto, perché quello dei Bianchi fu un movimento animato da una grande fede, che sa stare però, come detto in precedenza, dentro dinamiche tipicamente politiche. Insegna molto anche perché ci parla di un impegno personale e insieme collettivo per la pace, in nome di una moralità e oserei dire di una fede superiore, che dovrebbe guidare gli esseri umani alla costruzione di un mondo migliore. Una dimensione d’impegno personale e collettivo di cui oggi si avverte un gran bisogno, vista la situazione molto complicata che stiamo vivendo. È un bell’incoraggiamento e anche un bel monito che ci viene dalla nostra storia, che dice come l’umanità e i gruppi umani nei momenti di crisi riescono a trovare una forza interiore e una volontà di sopravvivenza veramente notevole».