Mi raccontano amici che, alcuni anni fa, don Vincent Nagle, carismatico sacerdote della fraternità missionaria San Carlo Borromeo, trovandosi davanti una vasta compagine di ragazzi rumorosi e distratti, e faticando ad attirare la loro attenzione, adottò una vecchia tecnica comunicativa: si interruppe improvvisamente, fece silenzio per alcuni istanti, e poi gridò con quanto fiato aveva in gola: «Ragazzi dovete morire!». Il rumore di fondo cessò immediatamente e tutti si misero ad ascoltare. Mi tornavano in mente proprio quelle parole di don Nagle, riflettendo sulla “provocazione” che Ezio Aceti ha lanciato, con lo slogan “Giovani vivi!”, ai giovani della nostra diocesi per l’inaugurazione del loro anno pastorale, venerdì 20 settembre. Si perché i ragazzi, che sono già uomini e donne con solo qualche giorno di meno, sono alla spasmodica ricerca di senso. Se la Chiesa non parla loro di morte e di vita eterna, che gliene può importare della nostra opinione su come va il mondo. A questo compito assolvono già egregiamente sociologi e analisti.
Lo stesso papa Francesco in più occasioni ha espresso il desiderio di vedere all’interno delle nostre chiese “giovani vivi” in grado di risvegliare una società addormentata, giovani che siano capaci di smarcarsi dalle lusinghe del nulla in cui il mondo vorrebbe soffocare il loro entusiasmo. E per Aceti si può essere vivi solo divenendo persone libere. Ma libere da che cosa? Innanzitutto dai condizionamenti della propria storia, anche se dolorosa. Il concetto di resilienza tanto in voga oggi, traduce proprio la capacità di trasformare le ferite in positivo. Non c’è assolutamente nulla da buttare della nostra vita, ma tutto da tenere e trasformare. Non si deve vivacchiare ma occorre ingaggiare l’intelligenza, che governa le emozioni, e fare appello alla volontà, che è il timone guida della nostra persona. Ogni tendenza emotiva del nostro carattere va condotta verso il bene. Le emozioni, anche le più apparentemente sconvenienti, come la rabbia o la gelosia, sono nostre alleate per la costruzione del bene, a patto che le sappiamo usare bene. Non esiste nessun istinto od emozione più forte di noi. «Tutti voi giovani, che siete qui stasera, siete in crisi», ha dichiarato. «Come faccio a saperlo? Semplice: si chiama crisi di identità. Accade a tutti coloro che si danno un proposito e non lo mantengono. Questo genera inevitabilmente crisi nella persona». Quando i giovani «fanno cavolate», quando «raccontate balle» ingigantendo la loro immagine, stanno scappando dalla capacità di tollerare la frustrazione di ciò che sono realmente. Anche questo genera crisi. Poi vira sulle “cotte” giovanili, dove ritrova tracce di Dio: quando si è innamorati si desidererebbe stare sempre con la persona amata, si vedono solo le cose belle, pronti a tollerarne anche i piccoli difetti, «e questa energia è tipica della vostra età».
La nostra capacità di amare è la cosa più alta che esista. A questo proposito ricorda – come suggeriscono alcune ricerche scientifiche – che l’essere umano ha scritto già nel Dna l’esigenza di relazionarsi e realizzarsi nell’empatia e nell’amore. Poi alza la voce e incalza: «Non mettete mai nel cuore di un bambino la paura dell’altro. Quando lo fate, state uccidendo il suo cuore. L’altro è coessenziale». Noi siamo programmati, esattamente come un computer, per l’amore: «Prendi qualsiasi persona scassata dalla vita e inizia ad amarla. Dopo un po’ ti accorgi che inizia a “funzionare”. Dove non c’è amore, metti amore e troverai amore, diceva S. Giovanni della Croce». È una girandola di perle e aforismi pregni di senso il suo procedere: «Il vero genera gioia e il falso tristezza». A questo proposito è provocante la sua riflessione: «Dubitate dei vostri pastori quando non li vedete sorridere almeno 20 giorni su 30, in un mese. Se un cristiano è perennemente giù con l’umore, non serve a niente. Ecco perché l’80% dei credenti fa acqua da tutte le parti». «Sostenetevi a vicenda ragazzi! Soprattutto se qualcuno tra voi è più fragile e cade. Non narrate i difetti degli altri ma i loro pregi, anche perché la realtà non è quella che si vede ma quella che facciamo esistere. Ammalatevi di positivo! Il dramma di oggi è che non sappiamo più vedere la luce e ci lasciamo schiacciare dal negativo. Ma pensiamo a Gesù, innamorato di noi, attratto dalle nostre miserie, che è venuto proprio per curarle». Preme e non dà tregua neppure sui pregiudizi: «Scrollatevi di dosso i pregiudizi, le idee sbagliate sulle persone e sulle cose. Il primo pregiudizio da abbattere è quello sul carattere.
Non esistono caratteri facili e caratteri difficili. Quando noi esprimiamo un pre-giudizio sul carattere di una persona, la stiamo uccidendo». E continua chiamando in causa genitori, insegnanti e sacerdoti: «Vi hanno certamente voluto bene ma da un punto di vista relazionale con voi hanno sbagliato tutto. Perché nelle relazioni non si dà mai il caso che uno abbia completamente ragione e l’altro torto. Nella relazione entrambe le persone hanno ragione. Questo possiamo capirlo anche come credenti: nessuno di noi possiede la verità tutta intera, perché la verità tutta intera ce l’ha solo Cristo. Se uno assume questa prospettiva, capisce anche che è chiamato continuamente a costruire la relazione». Inizia poi a parlare delle relazioni di coppia, e qui riserva varie sorprese ai presenti, passando in rassegna i tre slogan ricorrenti sull’amore, nei quali individua altrettanti inganni da abbattere: «Esiste l’uomo e la donna della propria vita», «siamo fatti l’uno per l’altra», «l’amore c’è o non c’è» «Queste sono stupidaggini ragazzi! – dice senza troppe ambasce – Aderire a queste tre credenze significa compromettere il futuro di una relazione e di un matrimonio. Quando il pathos di una relazione si spegne – perché prima o poi si spegne – occorre allora aprire i paracadute dell’intelligenza e della volontà, e continuare ad amare con queste due risorse». Tre possibili pensieri correttivi alla triade nefasta di poc’anzi, sono allora per Aceti: «È sempre possibile l’amore», «ad amare s’impara» e «amiamoci… solo in questo modo diventeremo l’uno per l’altra». Ha parole dense anche sul perdono: «Imparate a vivere il presente, dimenticando le ingiustizie che vi procura l’altro. L’amore è nel presente e non guarda alle offese ricevute.
L’amore sostiene sempre». E si rivolge poi con passione ai sacerdoti e ai religiosi presenti, mettendoli in guardia dal dire genericamente ai giovani «fai la volontà di Dio!», invitando piuttosto a riflettere sull’idea che la volontà di Dio è nient’altro che la personale volontà della persona che nel rapporto con Gesù viene illuminata, e quando viene illuminata, essa fa centro e la persona si realizza. La volontà di Dio è un po’ come l’azione dello Spirito Santo, che agisce come un pensiero sui nostri pensieri. E proprio qui Ezio Aceti salda l’idea del “giovane vivo”, con l’azione dello Spirito: il “giovane vivo” è colui che ha un rapporto il più possibile costante con lo Spirito di Dio. E siccome Aceti è persona pratica, alla fine dell’incontro propone una ricetta per vivere in pienezza tutto quanto insegnato: «Abbiate almeno 15 minuti al giorno di relazione diretta con Gesù Cristo. All’inizio potrà essere faticoso, ma vedrete che pian piano lo Spirito abitua al silenzio e a quel punto tutta la vita inizia ad assumere un significato diverso. Non cambiano le cose ma cambia la persona in rapporto alle cose. È questo rapporto con lo Spirito che rende la vita bellissima.
Oggi, come sempre, la grande truffa che ordisce costantemente il demonio nei nostri confronti, è quella di rinforzare in noi l’idea del bene, facendoci sentire una distanza incolmabile da esso, a causa delle nostre cadute. Ma noi non siamo solo l’errore in cui siamo incappati, siamo anche e soprattutto quello che vogliamo diventare». E in finale si accomiata dai presenti richiamando una regola aurea ricevuta dalla sua Chiara Lubich: «Ragazzi… amate tutti. Amate sempre. Amate per primi. Se farete questo sarete giovani vivi, pieni di gioia». La chiusura è del nostro vescovo Andrea, che invita ad essere giovani vivi frequentando l’adorazione eucaristica diocesana alle Capanne. È dalla frequenza di quel pane vivo che inesauribilmente attingiamo vita e possiamo dirci vivi. Parole e inviti che sono state boccate d’aria fresca anche per chi più giovanissimo non è.