Nella tragedia di Luana D’Orazio, la ventiduenne morta in una fabbrica tessile in provincia di Prato, si intrecciano tante storie: quella di un’operaia che amava il suo lavoro («ne era contenta», ricorda la madre), ma anche quella d’una ragazza che sognava il cinema (fece la comparsa in un film di Pieraccioni) e di una studentessa che, a 17 anni, aveva lasciato la scuola per provvedere al suo piccolo. Storie intense, toccanti, lontane dal modello della donna manager e milionaria con cui ci rompono i timpani, ma vicinissime a quello della vita vera, che ti saluta per strada ogni giorno.
Ma, soprattutto, sono storie ora prematuramente finite: se le è prese tutte un macchinario industriale – uno di quegli aggeggi che sui social non si vedono e di cui gli stessi politici e sindacalisti ormai raramente parlano – risucchiandone la protagonista, Luana appunto. Che, per amara ironia della sorte, era occupata in un’azienda che porta il suo stesso nome. Come se la sua fosse una vicenda già scritta; come una fatale ripetizione per farci entrare ben in testa che, mentre la grancassa mediatica non fa che martellare sui diritti civili, ce ne sono altri, di diritti, tali solo sulla carta. Quali? Per esempio, quello di una giovane di poter essere assistita nella sua maternità, senza essere costretta, per tirare avanti, a mettere a repentaglio la vita. Oppure quello di vivere in una società che prima di rincitrullirti, promettendoti subito la Luna e poi il resto del sistema solare, sia in grado di assicurarti garanzie minime; perché sognare è bello, si sa, ma anche sopravvivere non è male. Sul suo profilo Instagram, costellato di foto estive e spensieratezza, in un post di esattamente di un anno fa Luana lanciava un monito: «Non mi sottovalutare mai». Tranquilla, nessuno lo farà. Ma, se puoi, non essere tu a sopravvalutare noi, sperando che la tua fine ci insegni qualcosa.