Con l’occasione della presentazione dei restauri della chiesa del Ss. Crocifisso, pubblichiamo uno scritto in cui l’indimenticato don Luciano Marrucci (che è stato anche direttore del nostro settimanale), raccontava di come il vescovo Francesco Maria Poggi – colui che volle fortemente questa chiesa – partecipò in prima persona alla realizzazione dell’edificio, lavorando nel cantiere gomito a gomito con gli operai.
«Predicò, implorò, offrì tutto quello che aveva per fare arrivare le pietre della cava che era lontana. Questo vescovo aveva capito che non si sarebbe potuto edificare il Santuario del Ss. Crocifisso senza l’aiuto di tutti. Era tanto lo zelo che lo divorava per la casa di Dio che anche lui andò dal capo cantiere perché gli assegnasse un lavoro. Lui lo destinò alla parete orientale e gli disse di presentarsi ad un certo Lapo che era il più giovane ed anche il più bravo tra i mastri muratori. Andò a cercare questo Lapo e lo trovò che tendeva la corda: “Tu vuoi fare il manovale? Sei vescovo e vuoi lavorare sotto di me? Non è possibile!”.
Il vescovo gli rispose: “Tutti devono fare qualcosa. Ma non deve succedere come per la torre di Babele a causa della grande confusione. Quanto a me, io non so mettere un mattone sopra l’altro. Questo non me l’hanno insegnato. Ma tu sei molto bravo, mi dicono. Vuol dire che tu comanderai e io obbedirò. Ti prego, pigliami come secondo manovale”.
Lui faceva del suo meglio perché la buona volontà ce la metteva. Un giorno di solleone non resisteva più dal caldo e sentì che non ce la faceva a sollevare la caldarella verso il palco dove Lapo lavorava; le mani gli tremavano e allora gli disse: “Aiutami un po’”. Il mastro, che aveva delle braccia come il bronzo delle statue antiche, afferrò la caldarella e la issò con facilità sull’abetella. – Estate, autunno e inverno. Poi ancora estate. Venne l’autunno e come la Chiesa fu finita cominciarono i festeggiamenti per la solenne inaugurazione.
Uno di quei giorni Lapo si trovava in chiesa, quando vide uscire dalla sagrestia la grande figura del celebrante. Le mani, che aveva lunghe e sottili, erano infilate in due guanti di seta ricamata con lamelle d’oro e pietre che avevano colore e forma di chicchi di melagrana. Con la sinistra reggeva il pastorale luminoso come un raggio di luce e la sua destra benediceva, benediceva… Lapo lo guardava e non sapeva se entrava o se usciva da un sogno: il suo vescovo era il suo operaio e il suo operaio era il suo vescovo».
In quei giorni molti si accostavano ai sacramenti. Il vescovo aveva fatto sistemare uno scranno al fianco dell’altare della sagrestia ed era lì che accoglieva i penitenti. Ed ecco arrivare Lapo e mettersi in ginocchio. Incominciò così: “Ho capito che mi mancava un’altra cosa da fare. Ma è tanto tempo e forse non ho ancora imparato a confessarmi. Ora tocca a te. Aiutami un po’”. Il vescovo sentì passare dentro di sé il fiotto della misericordia divina che non scorre senza dare grande gioia anche in chi la trasmette, poi con tenerezza prese tra le sue quelle mani che ora tremavano un po’ e, come il samaritano, si occupò di tutte le sue ferite. Prima che finisse, Lapo fece: “A volte ho bestemmiato sul lavoro. A volte la calcina che portavi era troppo magra, a volte troppo grassa e quando il lavoro non veniva come volevo io perdevo la pazienza. Questo lavoro per cui non ho preso neanche una lira, ho paura che non mi conti proprio nulla. Ho fatto male”.
Il vescovo disse: “Non ti pentire mai del bene che hai fatto, pentiti solo del male. In altro tempo non avrei potuto parlarti così: ma bisognava che lavorassi tanti giorni insieme con te per dirti questo: le tue parole le ha portate con sé il vento, il tempio per cui hai tanto lavorato si è innalzato molto più in alto. Lo vedi? È sopra di noi”».