Il 5 maggio scorso al teatro Brancaccio di Roma, Tommaso Giani ha ricevuto dalle mani della sottosegretaria al ministero dell’Istruzione, Paola Frassinetti, il premio nazionale «Atlante – Italian teacher award», organizzato dal quotidiano «La Repubblica». Con lui la «classe pirata» dell’Istituto Checchi di Fucecchio, che ha sposato un progetto didattico che portava i ragazzi a seguire delle lezioni molto speciali nel carcere «Don Bosco» di Pisa insieme ai detenuti.
C’erano una volta i pirati: benda all’occhio, bandana e drappo nero con teschio a connotare i loro vascelli. Un po’ mascalzoni, un po’ briganti, gli uomini di mare pregavano di non avvistarli mai… Con le loro imprese hanno costellato tante nostre fantasie di bambini… Ecco, per una volta scordatevi tutto questo. Oggi parliamo di altri pirati, o meglio di una “classe pirata”. Una vera e propria classe di scuola, ma con connotati del tutto particolari.
La “classe pirata” infatti è un progetto realizzato all’Istituto Checchi di Fucecchio dal professor Tommaso Giani. Progetto nato due anni orsono per far incontrare, in una specie di collettivo pomeridiano, i ragazzi che frequentano i vari indirizzi dell’Istituto fucecchiese; progetto che ha conosciuto la scorsa estate un’evoluzione, portando questo gruppo di studenti a socializzare con un gruppo di detenuti del carcere Don Bosco di Pisa, per fare “lezioni corsare” insieme a loro. Ne parliamo in questo contesto perché venerdì 5 maggio, Tommaso Giani – proprio grazie alla sua classe pirata – è stato premiato a Roma nell’ambito del concorso “Atlante – Italian teacher award” organizzato dal quotidiano La Repubblica, che ogni anno premia tre docenti in tutta Italia per progetti di particolare rilievo e significato realizzati nell’anno scolastico. Per l’occasione abbiamo rivolto alcune domande al professor Giani.
Come è nata l’idea della classe pirata?
«Inizialmente era una forma di dopo scuola. La classe si trovava subito dopo le lezioni per mangiare qualcosa insieme e incontrare un personaggio, un testimone che veniva a Fucecchio a raccontare la sua storia. La nostra evoluzione è stata suggerita proprio da uno di questi ospiti, Walter Rista. È un ex giocatore della nazionale di rugby che a Torino, che da diversi anni ha messo su una squadra di rugby composta interamente da detenuti. Venne da noi lo scorso anno a raccontare la sua storia, accompagnato da un detenuto in semi libertà; e proprio chiacchierando con lui nacque l’idea. Ci disse: “Ragazzi, quello che avete realizzato è un ‘salotto’ bello, ma non limitatevi solo ad ascoltare le storie degli altri. Create voi stessi una storia di cui C’ gli altri parlino. Siate più protagonisti. Vi lancio un’idea: visto che si è parlato di carcere, perché non portate il vostro gruppo di discussione dentro il carcere e non fate in modo che della classe pirata facciano parte anche dei detenuti?”. È nata così l’idea».
È stato difficile realizzarla?
«Non è stato facile, perché ovviamente ci sono state tutte le burocrazie della scuola e del carcere da rispettare. Walter Rista però, dopo averci dato l’input, non ci ha lasciati soli e nella fase di progettazione ci ha messo a disposizione la sua esperienza di lungo corso. Il passaggio decisivo poi è stato il colloquio con il direttore del carcere don Bosco di Pisa, Francesco Ruello. È lui che ci ha aperto a questa esperienza meravigliosa. Il premio che abbiamo ricevuto è in buona parte anche suo. In quel colloquio ascoltò con attenzione la mia proposta. Gli lanciai subito la richiesta di poter fare classe con 12 detenuti. Sembrava un numero azzardato e invece il direttore accettò. Una volta incassato il sì è poi iniziato il reclutamento dei ragazzi. Abbiamo cominciato durante l’estate scorsa, attivando il tam tam tra tutti i miei studenti. È nata così la “classe pirata” 2022/2023 dell’Istituto Checchi: 20-25 persone, detenuti compresi». Con quale cadenza avete fatto lezione al Don Bosco? «Due volte al mese. Poi a un certo punto abbiamo dovuto fare un incontro al mese per esigenze organizzative del carcere. In tutto abbiamo totalizzato 12 incontri di due ore ciascuno al pomeriggio, dalle 14 alle 16».
Quali erano i temi delle lezioni e come si svolgevano?
«Le lezioni si svolgevano nella cappella del carcere. Stavamo disposti in cerchio. Io davo il “la” con una parola chiave sempre diversa. Una parola scelta accuratamente per ispirare, in pari misura, sia gli studenti che i detenuti: “infanzia”, “amicizia”, “coppia”, “maestri”, “paure”, “passioni”, “soldi”, “libertà”, “bugie”… Per ognuna di queste parole i partecipanti erano invitati (non obbligati!) a raccontare un vissuto personale attinente alla parola stessa. Ne sono risultati dei collage di brevi racconti di vita a cui potevano far seguito feedback di risposta da parte di chi ascoltava». Cosa hai visto cambiare nei tuoi ragazzi del Checchi? «I ragazzi del Checchi hanno sicuramente rinforzato due competenze: la prima è la capacità di raccontare e raccontarsi ad alta voce. Mettere su un racconto a ruota libera di 5 minuti senza testo davanti, condividendo qualcosa di intimo e personale, non è una competenza da poco, implica non solo capacità comunicativa, ma anche coraggio e fiducia negli altri. E poi l’altra competenza è in ordine all’educazione civica: in particolare riguardo al funzionamento di un carcere. Dai vissuti dei detenuti, per via traverse, si arrivava sempre a parlare di ora d’aria, di giudice di sorveglianza, di provvedimenti di semi-libertà, fino a trattare del disagio psichico e dei suicidi che sussistono purtroppo in misura significativa nelle carceri italiane. Tanti argomenti insomma, che hanno aperto squarci e possibilità di approfondimento per i nostri ragazzi sul fatto che il carcere funga o meno da strumento di recupero del detenuto. Purtroppo l’art. 27 della nostra Costituzione, laddove recita che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, resta in gran parte disapplicato. A questo proposito una ragazza che partecipava alla classe pirata, alla luce del progetto, ha deciso che il prossimo anno, dopo la maturità, si iscriverà a giurisprudenza».
Cosa rimarrà invece ai detenuti di questa esperienza?
«Ai detenuti abbiamo regalato uno sguardo più ottimistico sulle nuove generazioni e sugli adolescenti di oggi. Alcuni di loro sono in carcere da diverso tempo, e percepiscono uno spaccato sociale giovanile un po’ tetro. Vedersi arrivare con questa costanza e disponibilità, due volte al mese, questi ragazzi e ragazze minorenni, carichi di così tanta freschezza ed empatia, gli ha regalato una significativa testimonianza di umanità e rinnovata fiducia nella società che c’è fuori. Hanno senz’altro capito che è possibile fidarsi, fare delle amicizie belle anche con le nuove generazioni». Ci sono stati episodi significativi, toccanti in questo percorso? «In più occasioni, in più lezioni, le ragazze del Checchi raccontando dei loro vissuti familiari e affettivi o parlando di ferite esistenziali, non di rado sono scoppiate in lacrime… lacrime belle, liberatorie, di chi ha fatto pace con delle situazioni anche difficili. C’è stata una ragazza che al ritorno dal carcere, in pulmino, mi continuava a dire: “Prof questa cosa che ho detto oggi non la sanno nemmeno i miei genitori e io l’ho raccontata a questi carcerati… non so perché è successo, però sono stata contenta di averglielo raccontato!”».
A Roma hai portato con te i ragazzi per la premiazione…
«Si ho voluto condividere con loro questa gioia grande. In tutti i modi volevo che ci fossero anche loro sul palco del Teatro Brancaccio, perché il premio era di squadra, quindi appartiene a tutta la scuola e anche al carcere di Pisa. Purtroppo i detenuti, per ovvi motivi, non abbiamo potuto portarli con noi, ma il premio è anche loro. La mia speranza adesso è che questo riconoscimento possa incoraggiare sempre più progetti come questo. Non è raro infatti incontrare nella scuola un clima di generale sfiducia nei confronti dei cosiddetti progetti. Ma spesso è grazie proprio a questi progetti che la scuola esce da scuola e si riesce a fare lezione anche in ambienti fisicamente diversi dalla classe».