Il giornalista di TeleGranducato Antonello Riccelli ha parlato della comunicazione ai tempi della pandemia nel contesto di un percorso formativo di Azione cattolica. Al centro della riflessione, l’etica di professionisti e utenti dell’informazione.
La terrazza del Seminario vescovile di San Miniato ha ospitato, lunedì scorso, l’incontro organizzato dall’Azione Cattolica e dall’Ufficio Diocesano per la Pastorale Sociale e del Lavoro sul tema della comunicazione. Al tavolo dei relatori, il giornalista di TeleGranducato Antonello Riccelli, il vescovo Andrea e il professor Andrea Landi in veste di moderatore.
Riccelli, vicepresidente dell’Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana) ha sottolineato come la pandemia, almeno nelle sue prime fasi, abbia cambiato le modalità di consumo dell’informazione. Da una recente ricerca del Censis emerge che il 75% delle persone hanno consultato soprattutto i mezzi di comunicazione tradizionali (radio, televisione e, in misura minore, la carta stampata) rispetto alle risorse web. Su internet il 50% degli utenti è andato a consultare siti solitamente poco frequentati, come i siti istituzionali della Protezione civile o del Governo. A fronte di una infodemia, di un flusso eccessivo di informazioni spesso contraddittorie, la gente ha quindi individuato alcuni punti fermi dove recuperare dati più attendibili. A queste fonti ufficiali, però, la gente ha affiancato un numero insolitamente alto di fonti alternative. Nel periodo del lockdown c’è stata una ricerca spasmodica di notizie, finalizzate non tanto all’approfondimento quanto alla comprensione di quello che sarebbe potuto accadere il giorno dopo. In una situazione di questo tipo hanno proliferato le fake news e la cosiddetta post[1]verità, specialmente attraverso i social come Facebook o Twitter, dove manca un’opera di intermediazione ragionata. «Il giornalista ha regole deontologiche ed etiche – ha ricordato Riccelli -, il postatore seriale di Facebook non ne ha. Mette in rete la prima cosa che gli viene in mente, senza calcolare le conseguenze». Anche chi pubblica post su Facebook o su Twitter dovrebbe pertanto applicare delle regole etiche, al pari del «giornalista discernitore» e, d’altra parte, il pubblico dovrebbe essere alfabetizzato, dotato di strumenti e sensibilità per discernere. Riccelli ha delineato tre fasi attraverso cui il «giornalista discernitore» esercita la sua azione etica. La prima è la scelta di quali eventi seguire e quali no. La seconda riguarda le connessioni tra le notizie, il contesto in cui vengono inserite. La terza è l’ordine, la gerarchia delle notizie. Si tratta di scelte di valore che dovrebbero essere prese unicamente in base a un criterio di natura etica.
Il «giornalista discernitore» ha però di fronte a sé degli ostacoli. Il primo è la velocità con cui si trova a dover fare le opportune verifiche. Queste vanno fatte in tempi ragionevoli, ma non possono certo essere tralasciate. Un altro ostacolo all’azione etica è il clamore, la tendenza a confondere informazione e intrattenimento. Senza essere troppo ingessati, i media devono riuscire a dare fiducia, risultare credibili. Il terzo ostacolo è la pressione editoriale e politica. Questo comporta necessariamente un minimo di compromesso, ha ammesso Riccelli, ma la soglia del compromesso dev’essere alta, mai eticamente al ribasso.
Sull’altro fronte, quello dell’alfabetizzazione, Riccelli ha invitato ad usufruire dei media sempre in modo critico, considerando le scelte compiute dal giornalista: ad esempio, l’ordine e il risalto dato alle notizie, che avrebbero potuto essere diversi. Grande interesse ha suscitato nell’uditorio il risalto dato dal relatore al tema della formazione dei giovani giornalisti nelle parrocchie e nelle associazioni. Un compito su cui la Chiesa non ha investito abbastanza, per cui oggi ci sono pochi giornalisti cattolici nei media laici, dove il loro contributo sarebbe preziosissimo.