Un’opera biografica scritta nel cinquantenario della morte del beato Pio Alberto Del Corona inizia con l’affermazione lapidaria: «Il suo martirio si compì nella carità». Frase tanto espressiva quanto ricca di significato. Sappiamo infatti che i martiri cristiani, a partire dal martirio di Santo Stefano, sono coloro che sono disposti a sacrificare quanto di più caro abbiamo – il dono della vita – pur di difendere la fede al vangelo. Perdere la vita, privarsi di qualcosa, dunque.
Ecco che tale definizione, applicata alla biografia di Del Corona, suscita in noi riflessioni profonde. Del Corona come martire, come paladino della povertà, mai ostentata durante la sua esistenza terrena. Come Del Corona esercitò questa “privazione” durante il suo apostolato? Ritornando ai biografi del beato sappiamo che egli faceva frequenti visite nelle carceri, agli ospedali e ai ricoveri. Ma si privava anche di quanto gli apparteneva «a gran velocità».
È lui stesso a dire: «Porto a chi soffre un po’ di aiuto e un viso di amico». In ciò sta la bellezza della carità esercitata con fede. La carità che non fa pesare il gesto munifico, la carità che è gesto d’amore e U che porta con sé sempre un sorriso, talvolta più importante di qualsiasi offerta materiale. La carità era vista dal vescovo domenicano non come gesto dovuto da un ecclesiastico per chissà quale dovere morale, ma era vissuta come una palestra spirituale: «Nei luoghi del dolore, guadagno dei meriti, faccio penitenza dei miei difetti e mi rendo più adatto al mio ministero di amore».
E ancora: «Nei poveri e nelle carceri trovo motivo di bene e di premure». Scorrendo la vita di questo pastore esemplare, scrittore elegante e predicatore di successo, colpisce il racconto di chi ha visto in prima persona Del Corona vendere le sue preziose vesti per i poveri, le sue fibbie argentee, la sua croce pettorale e persino donare – nel 1897 davanti al corpo di Sant’Antonino per cui si stava operando la ricognizione – il suo prezioso anello donato al momento della consacrazione da Pio IX in persona, per onorare le mani del Santo Arcivescovo di Firenze.
E chissà oggi che impressione farebbe il suo gesto più eclatante. Narrano i biografi del clamore vissuto nel palazzo vescovile quando, di rientro da una visita pastorale, incontrato un poveraccio per strada privo anche delle scarpe, gli volle donare le sue rientrando a piedi nudi in episcopio. Del Corona a distanza di molti anni dalla sua nascita al cielo resta il nostro più esemplare modello di carità, di carità autenticamente vissuta da chi sa aprire i cuori dei fedeli con quella “teologia del sorriso” di cui oggi parla anche il cardinal Tagle ricordando il suo apostolato nelle Filippine.