Se cerchi negli infiniti specchi della vita, il volto talvolta deturpato dell’uomo, finirai per trovare il Cristo. Sembra essere questo il cuore del messaggio che don Armando Zappolini e il poeta Davide Rondoni, incrociando i loro argomenti quasi in «singolar tenzone», hanno consegnato alla folla che gremiva la chiesa di S.Domenico a S.Miniato per la terza edizione dell’evento «Alla ricerca dell’uomo perduto», ricamato quest’anno attorno al tema «Il sale della terra». Prime stoccate di don Armando che, incalzato dalle domande di Andrea Migliarini, ha agganciato i presenti: «È decisivo avere un sapore, sapere di qualcosa nella vita».
Ripensando al suo percorso, e in particolare agli anni dell’infanzia trascorsi a Partino, racconta che non avrebbe mai immaginato di vivere questo tripudio di relazioni e incontri che è diventata oggi la sua vita: «Mi sono spesso chiesto quale irruenza creativa fosse già allora presente in me, quando ragazzino sognavo di diventar prete». Risale al ’90 la sua svolta nella vita sacerdotale. Si colloca infatti a quel punto l’incontro con Madre Teresa e i poveri di Calcutta; ed è pure di quell’anno il doloroso incontro con il Leviatano della tossicodipendenza, che gli fece scoprire a soli quattro chilometri da casa la comunità di recupero di Usigliano, dove un manipolo di giovani vite si stava consumando in una «voragine» di solitudine e sofferenza. Un grido disperato lanciato contro la quiete borghese delle vite placide e sazie dei nostri territori. I poveri sono stati i più grandi maestri della sua vita; gli hanno insegnato che alle persone non si può dare semplicemente da mangiare: «Da mangiare lo puoi dare alle bestie, agli uomini devi dare prima di tutto dignità».
Don Armando tocca poi sponde intime quando rivela che «chi coglie esclusivamente il mio lato selvaggio, sociale o politico non coglie l’essenziale. Sotto c’è come un iceberg, c’è la mia dimensione contemplativa. Ricordo ancora con stupore e commozione come don Silvio, il vecchio pievano di Palaia, consacrava l’ostia e il vino, questi eterni simboli del lavoro dell’uomo: andava in una specie di appassionato deliquio, di commozione, facendo intuire plasticamente, allo sguardo di noi bambini, il sapore del mistero profondissimo che si celebrava tra le sue mani. Lo stesso mistero che ho poi ritrovato nella preghiera di Taizé e nella “custodia” del silenzio». Chiude il suo intervento dipingendo un bozzetto dalle iridescenze bibliche: «Non puoi attraversare il deserto della vita se non impari a scavare pozzi. Il pozzo è l’incontro con Dio nella preghiera, nell’arte, nella bellezza. È solo il pozzo che ti dà l’acqua sorgiva e zampillante per la tua oasi, il giardino accogliente dove ospitare l’uomo, il fratello. Le mie oasi sono state la parrocchia, le associazioni, i ragazzi della comunità».
Tocca poi a Davide Rondoni, che stimolato da Simona Cotroneo scalda il pubblico giustificando la sua libertà espressiva – così geniale e urticante per chi l’ascolta – con le sue radici «cristiano-cattolico-anarchiche, di rito romagnolo». Subito dopo sciabola un fendente all’indirizzo del «luogocomunismo» di chi sostiene, ammutinando al compito di educare, che «i giovani di oggi non sono più quelli di una volta»: «Quando il presente va male, c’è sempre un passato che ha colpe pesanti come un macigno». Richiama i credenti ad un’urgente presa di consapevolezza su cosa significhi essere tali: «Ogni domenica mangiamo la carne di Uno e beviamo il sangue di Uno! La fame di vita dell’uomo, da cui scaturisce anche il suo disagio, è talmente alta che ha bisogno di mangiarsi Dio». In poche parole la nostra fede è un atto di «cannibalismo», e per meno di questo l’uomo non ci sta. Saldandosi all’impegno di don Armando, rileva con sconcerto come la nostra società sia costruita su una pericolosa tirannide che classifica gli uomini in fortunati e sfortunati. I primi benedetti e osannati, i secondi reietti ed emarginati nei lazzeretti della vita. Vede in tutto questo un effetto dell’abbandono del sacro, arrivando a dire che le «case da slot», dove si celebra questa perversa liturgia della fortuna e sfortuna, sono l’esito prevedibile di un mondo che ha abbandonato l’uomo crocefisso e la Provvidenza cristiana. Da poeta affila poi il suo pensiero sulla natura delle parole: «Oggi si parla molto di tolleranza, questo perché è la parola amicizia ad essere entrata in crisi», e se la prende con il termine «integrazione»: «Puoi far integrare i denti di due ruote dentate, ma non gli uomini. Gli uomini si ospitano, si accolgono», come a voler dire che esiste un linguaggio che traduce e rimbalza continuamente brutalità e violenza nelle nostre relazioni. Solo l’arte, la poesia e l’Amore hanno il potere di redimere e fare ecologia nel nostro parlare. Un dialogo bello e necessario. Chi l’ha perso, ha perso parecchio.