Don Roberto Pacini, 63 anni, originario di Fucecchio, questo sabato 25 settembre diventa per decreto vescovile il nuovo vicario generale della diocesi. Succede a monsignor Morello Morelli che era in carica dal 2011. Abbiamo raggiunto don Pacini per rivolgergli alcune domande in occasione dell’inizio ufficiale di questo servizio alla Chiesa di San Miniato.
Don Roberto, potrebbe spiegare ai nostri lettori quali incarichi e quali uffici competono al vicario generale della diocesi?
«Il vicario generale è il primo collaboratore del vescovo e munito della medesima potestà esecutiva. A motivo di questo è chiamato a maturare una sempre più profonda sintonia con il pastore della diocesi, di cui fa le veci: lo rappresenta quando le circostanze lo richiedono, lo sostituisce qualora se ne presenti la necessità. Ha ricevuto un’investitura per prestare aiuto al presule nel governo della Chiesa particolare, con la facoltà di gestire tutti gli atti amministrativi che non richiedano, a norma del diritto canonico, un mandato speciale. In virtù di questo, al vicario è richiesto di aderire alla sensibilità, agli orientamenti e alle decisioni del vescovo per profonda convinzione, per vocazione e per fedeltà al mandato, prima ancora che per obbedienza alle norme. E in questo momento non posso quindi non essere stupito e grato verso monsignor Migliavacca, per la fiducia accordatami. Così come grato sono ai preti, ai diaconi e alle tante persone di ogni parte della diocesi, che mi hanno manifestato affetto, stima e incoraggiamento».
Lei è stato ordinato sacerdote nel 1989 da monsignor Edoardo Ricci. Hai poi svolto il suo servizio sotto l’episcopato di monsignor Tardelli e adesso di monsignor Migliavacca. Come ha visto cambiare il volto della Chiesa di San Miniato in questi trenta anni?
«Lo scorrere del tempo ha segnato indubbiamente anche la Chiesa di San Miniato, nel bene e nel male. Si è certamente evidenziata anche da noi la fragilità dovuta alla presunzione, avvertita o meno, di poter vivere di rendita. Direi poi che anche sull’annuncio del Vangelo abbiamo fatto qualche fatica, nonostante la buona volontà di molti e la presenza di donne e uomini santi, che anch’io ho conosciuto; in questo abbiamo però anche assistito al provvidenziale sgretolamento di forme non più capaci di tradurre nell’oggi della vita e della storia la Parola che non passa, riuscendo D senza finzioni a dialogare con il presente, con “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto” (come afferma in modo formidabile il magistero conciliare). Finalmente costretti, non potendo trattenere tutto, a cercare l’essenziale, abbiamo riscoperto all’opera la Misericordia di Dio, da cui è necessario ripartire sempre, con quella freschezza e vivacità che anche il vescovo Andrea sta favorendo. Non dobbiamo d’altronde nasconderci che si è trattato di un trentennio in cui abbiamo vissuto sfide e cambiamenti che sono stati – e sono tutt’ora – epocali».
Come affiancherà monsignor Migliavacca nel servizio alla Chiesa di San Miniato?
«Lo affiancherò secondo quello che sarà il suo consiglio e le esigenze che vorrà indicarmi. E, pur rallentato dai miei limiti, con spirito di servizio e di sincera collaborazione, come ho cercato di fare in questi anni in cui, già con il vescovo Tardelli, mi sono occupato della segreteria e di altri uffici diocesani. Faccio mio il motto che appare sulla scrivania nella stanza del vicario, almeno fin dai tempi di monsignor Simoncini: “Ubi deficiunt equi currunt aselli”, che a me piace tradurre liberamente – dice scherzando – “meglio che trotti un asino che un cavallo deficiente”, anche se mi contestano che il latino è al plurale. Ma torniamo seri…. Il ricordo di monsignor Vasco Simoncini, il primo vicario che ho conosciuto, risveglia in me l’ammirazione per la competenza e la dedizione di chi mi ha preceduto in questo incarico, insieme quindi a un po’ di timore nell’avvertire la mia povertà. A me più vicina, nella reciproca collaborazione, resta l’interpretazione ammirevole di questo compito data da monsignor Idilio Lazzeri, da una vita mio maestro, e infine da monsignor Morello Morelli, dal quale ho accolto l’incoraggiamento a succedergli senza timori. A don Morello, oltre alla gratitudine per come ha svolto il suo servizio, va il mio augurio di ristabilirsi presto, visto lo stato precario di salute in cui versa al momento. Ha ancora tanto bene da fare».
I nostri lettori credo siano curiosi di conoscere un po’ più da vicino il loro nuovo Vicario… Ci racconta qualcosa di sé e della sua cifra spirituale?
«Sono state tante, ma tante, le cose belle di cui ho potuto godere – specialmente nella comunità cristiana – che mi hanno accompagnato nella giovinezza e nella maturazione della vocazione e che mi hanno sostenuto fino ad oggi. Anime e volti (stupendi), compagnie (formidabili), amicizie (solide), affetti (sinceri), esperienze (irripetibili): la famiglia, la parrocchia, il paese, la scuola, dalla materna al diploma di ragioniere, don Mario Santucci, la Casa del Fanciullo a Fucecchio, la musica e il canto, l’atletica, i campi scuola con l’Azione cattolica, i soggiorni diocesani per catechisti ad Alba di Canazei, e poi ancora: Taizé con il seguito degli incontri internazionali, i molti preti incontrati sul mio cammino, i confessori, le suore (alcune terribili, ma efficaci), e ancora: le vendemmie annuali da studente, i rompicapo nell’amministrazione di Radio TV Medio Valdarno, i quattro anni nel cantiere di prefabbricati in cemento armato e i compagni di lavoro, il seminario, la teologia, il mese ignaziano e le frequentazioni dei gesuiti, la pastorale giovanile e le giornate mondiali della gioventù, la Certosa di Farneta, l’anno sabbatico in una fraternità sacerdotale a Genova, le parrocchie servite, i collaboratori generosi e leali, gli incarichi, temuti e poi abbracciati… E tutto questo, accompagnato sempre da “qualcosa di storto”, da qualche paura, da qualche arrabbiatura, da qualche delusione, da qualche umiliazione, da qualche contraddizione. Queste e cento altre voci, ciascuna delle quali mi spalanca un mondo. E tutte sono state esperienza della Misericordia di Dio… Su un’unica cosa mi soffermo: ricordo che piuttosto grandicello, forse già quindicenne, mi accorsi che durante la Messa, al silenzio che segue la Comunione, la preghiera di ringraziamento la recitavo al femminile, evidentemente senza pensarci troppo, seppur con devozione. Non era una preghiera che mi era stata insegnata in casa, come le altre. Semplicemente l’avevo imparata fin da piccolo sentendola usare dalla mia mamma, standole in collo, quando mi portava alla Messa con lei. Non avevo più pensato a questo. Quando domenica le porterò la Comunione, voglio chiederle se a novantacinque anni la recita ancora.