La piazza del Duomo di San Miniato è già teatro di per sé, anche senza il teatro. Basterebbe questa semplice osservazione per dare la misura del privilegio che rappresenta il poterla vivere e gustare in una sera di mezza estate, prendendo comodamente posizione su una sedia, liberandosi dal fastidio della mascherina anti[1]contagio, per gonfiare le narici del respiro dei secoli che promana dai monumenti che fanno da corona a quel picco del colle sanminiatese.
Partiamo allora da qui, da questa nota situazionale e di contesto, per parlare dello spettacolo centrale del Dramma di quest’anno: «Paradiso. Dalle tenebre alla luce» di e con Simone Cristicchi; e diciamo subito che nello spettacolo del cantautore romano ci è sembrato di trovare una scialuppa di salvataggio per riguadagnare a un brandello di normalità in cui gustare il bello – musica e teatro – in quiete e santa pace. Se il Covid ha generato panico e paura (non a caso è malattia che prende i polmoni, l’organo bersaglio per antonomasia della paura con afasia del respiro) spettacoli così sono boccate d’ossigeno, che ci ricordano che siamo esseri spirituali e che siamo chiamati a qualcosa di più che non la semplice sopravvivenza o il vivere schivando il contagio («siamo nati e non moriremo mai più»).
Simone Cristicchi ha proposto, da uomo in cammino, la storia della sua ricerca di senso. È stato un po’ Peter Pan, un po’ Piccolo Principe… docile si è lasciato prendere per mano dalla voce di mistici e maestri di ogni tempo; figure delle cui parole era intessuta la filigrana del suo monologo. Spiccava tra tutte la stella polare dell’Alighieri; un Dante umile ma profeta. Ne è risultata una trama lucente, di un’ora e mezza, intarsiata di melodie, recitazione e poesia. Una specie di Battiato post litteram. Bella la lettera a cuore aperto scritta L al divin poeta per presentargli la nostra insicura situazione, il nostro mondo, le nostre debolezze, contrapposte alle aspirazioni che sempre ci accompagnano.
Bellissimo il passaggio sulla chimica del corpo identica alla chimica delle stelle e similitudine esplicita sulla nostra destinazione ultima. Felicemente incastonate nel filo del discorso due confessioni a cuore aperto del Cristicchi “accarezzato” dal Cielo: il racconto della piccola Maria Sole Marras morta nel 2017 al Meyer di Firenze per una malattia incurabile, con la storia delicata e suggestiva di quel palloncino bianco che, in una notte di bufera, sul monte Amiata, restava incollato alla strada muovendosi come una mano per salutare il nostro cantautore e poi l’affabulazione sui tre giorni di “illuminazione”, di “stato di grazia”, vissuti come una rivelazione sul mondo, le cose e le persone… piccoli cenni da Lassù.
Alla fine, attraverso un caleidoscopio di citazioni esplicitate o anche solo ammiccate, Cristicchi, con questa sua opera, ha come fatto, complessivamente, una stupenda parafrasi a quell’unica e indimenticabile frase di Agostino, consegnata nell’incipit delle Confessioni come memento per l’uomo di ogni tempo: «Fecisti nos ad te (Domine), et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te» – «Ci hai fatti per te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto fino a che in te non riposa». Anche per questo, e non solo per questo, lo spettacolo di Cristicchi ha meritato la standing ovation.