«Chi cammina superbo, forte della sua grandezza e dei suoi cocchi; chi pone fiducia nei suoi giorni vani, nei molti suoi averi e nel suo oro, ricordi il dì in cui saranno abbattute la mala sua superbia e l’alterigia. Ma come può scordare che sarà provato con dolore sul suo giaciglio quando gemerà e soffrirà e non avrà lenimento al suo dolore? Quando brancolerà nel buio e più non brillerà la sua stella e s’udranno intorno nelle piazze i gemiti di famiglie e famiglie? Sono del Signore, Dio nostro, la misericordia e il perdono». (attribuita a Rav Jehuda ha- Levi) Chatimà tovà Il vero perdono viene dal cuore. All’inizio potremmo perdonare da una piattaforma superficiale perché il vero perdono potrebbe richiedere tempo. Se la nostra esperienza è stata traumatica potrà anche richiedere molto tempo. Sappiamo che perdonando saremo alleviati dal veleno dell’odio.
Perdonare non significa condonare: coltivare una vita di perdono vuol dire liberarsi dal rancore, far crescere in noi una cultura di non violenza come autentica via che favorisce lo sviluppo spirituale. Significa soprattutto assumersi la responsabilità di migliorare: essere pazienti ma non indulgenti.
È fondamentale la distinzione fra perdono e condono, perché attraverso la chiarezza che dobbiamo sviluppare su questi due termini, comprendiamo che il ’buonismo’ oggi imperante nel regno del “luogo comune” nulla ha a che fare con la bontà. Il ’buonismo’ non è basato sull’etica ma sul sentimentalismo, si nutre di emozione effimera, si fonda sul soggettivismo sfrenato, come dicevamo, sul luogo comune, sul conformismo, sulla moda del momento. Il buonismo è ipocrisia travestita da bontà. Quella che a noi interessa è invece far crescere la compassione, coltivando una vita di perdono libera dal rancore, dall’odio, dal risentimento. Sappiamo che saremo perdonati se perdoniamo gli altri. Quindi dovremmo pregare di essere liberati da questa malattia dell’odio.
La compassione è un balsamo che cura e lenisce mentre le brutte parole e i cattivi pensieri che indirizziamo agli altri sotto la spinta dell’odio e del rancore sono come lividi nell’anima, sono frutto dell’istinto più basso scatenato: si dice nella Qabbalà ebraica che le brutte parole sono come ustioni nell’anima. Se abbiamo amato una persona che non lo meritava, se abbiamo fatto del bene a chi non ha compreso il nostro dono, non dobbiamo coltivare il risentimento ma pensare che il bene ritorna sempre: abbiamo comunque fatto qualcosa di buono, abbiamo lasciato una scintilla, abbiamo depositato un seme che un giorno darà il suo frutto. Ha scritto un famoso scrittore israeliano, David Grossman: «Conosco molto bene la spinta dell’odio e so quanto sia facile arrendersi al sentimento di vendetta, concedersi alla gravità del dolore e della disperazione. Eppure dobbiamo pensare che dietro le armi, dietro le uniformi nostre e del nostro nemico, c’è un essere umano».
Spesso invece si vuole avere ragione a tutti i costi, si vuole che non sia ferito l’onore, non si perdona chi reca offesa perché colpisce l’identificazione con un ruolo, con una posizione sociale, con un modo di apparire in pubblico. È interessante notare come fegato, peso e onore in ebraico sono tre parole composte dalle stesse lettere che hanno lo stesso valore numerico: quasi a voler rendere evidente come quello che percepiamo come peso che grava sul nostro onore va immediatamente a colpire il nostro fegato, l’organo dove si annida il risentimento, dove travasa la bile, il punto da cui nasce il sapore amaro in bocca. Il risentimento fa male anche fisicamente, è un’energia distruttiva. Il rancore produce lo stesso effetto del bere veleno. Il rancore prosciuga e inaridisce, stressa e sfinisce. Attaccarsi al proprio risentimento vuol dire rimanerne schiavi. Per questo il perdono non ha valore solo per la persona che ci ha ferito e che lo riceve, il perdono è salvifico anche per chi ha ricevuto il torto, è fondamentale per la propria crescita spirituale. Non lasciamo che l’offensore alberghi nella nostra mente come un inquilino indesiderato perché l’odio inquinerà anche noi e ci riempirà di qualità negative.
Dobbiamo anche fare un grande sforzo di accettazione del nostro passato: vorremmo, a volte, tornare indietro, cambiare quel che è stato. Ci maceriamo nel ricordo e nel desiderio di cancellare il passato, di mutare il nostro vissuto. Ma l’esperienza passata che ci ha ferito non può essere modificata. Dobbiamo accettare quello che è successo. Possiamo e dobbiamo agire nel presente ed abbandonare ogni speranza di un passato migliore di quello che abbiamo avuto. Dobbiamo accettare l’esperienza del dolore in modo positivo e smettere di recriminare perché vivere nel passato è vivere nell’ignoranza. Prendiamo dimora nel principio della misericordia, diventiamo mendicanti di misericordia. Se il nostro passato ci ha dato dolore, se la nostra vita ci crea amarezza e risentimento, allora non dobbiamo crogiolarci in queste emozioni negative ma cambiare il nostro modo di pensare e di vivere, purificando i nostri cuori, dando a noi stessi la pazienza e la perseveranza della misericordia.